PUNTATA #1
Guardai l'orologio. Erano già le 18:00.
«Martina, posa i pennelli nell'armadietto» ordinai, mentre cercavo
di non perdere di vista Gabriele.
«Greta, sono ancora bagnati!» protestò la bambina, mettendo il
broncio.
Disturbo dell'attenzione. Affido
esclusivo alla sorella del genitore di sesso femminile. Quattro cugini al primo
grado di parentela.
Non dovevo stupirmi se il bisogno di ordine di Martina era così
pressante.
Quante persone c'erano nella sua nuova casa? Sei, escluso lei,
forse otto, forse venti.
Due delle quattro Vele, palazzi a uso residenziale a forma di vele romane. |
Difficile stabilire con precisione i limiti di un nucleo
familiare, quando la famiglia coincide con il condominio per necessità e per
abitudini sociali.
E le Vele di Scampia non erano un complesso residenziale normale.
Erano l'inferno in terra.
«Signurì, Gabriele si è pigliato il mio portapastelli.»
Strinsi leggermente gli occhi, una reazione istintiva che stavo
cercando di moderare da quando lavoravo come educatrice per il programma di
recupero dei minori a rischio dell’Istituto Montessoriano di Scampia. Gli
errori grammaticali, l'uso del dialetto, l'incapacità di scegliere un registro
linguistico consono erano naturali in soggetti così giovani in un contesto
culturalmente marcato.
Eppure, ogni volta che i bambini mi appellavano con il titolo di "Signurì",
avvertivo nelle orecchie lo stridio delle unghie che grattavano su una lavagna.
Le mamme chiamavano così le insegnanti, aveva detto mia nonna. Ma
non capitava più da ormai mezzo secolo. Non capitava a Posillipo, il quartiere
della Napoli bene in cui ero cresciuta. Ma le periferie, della Napoli che
conoscevo io, avevano solo il nome.
«Gabriele, restituisci il portapastelli a Salvatore.»
Usai un tono severo, anche se con Gabriele cercavo di andarci
piano. Era un uomo di sette anni, mi ripetei ancora una volta, sostenendo il
suo sguardo contrariato. C'era una durezza nei suoi occhi scuri che mi turbava
e mi aveva strappato qualche ora di sonno negli ultimi mesi.
Nessun bambino avrebbe dovuto avere quello sguardo.
Nessun bambino avrebbe dovuto lasciar trasparire quella rabbia.
Ma Gabriele Russo non era un bambino normale, come non lo erano
Martina, Salvatore e i restanti sei bambini che dopo le lezioni ordinarie
venivano affidati a me per le attività di recupero e i laboratori didattici.
Gabriele rovesciò il contenuto dell’astuccio sul banco, senza
smettere di fissarmi. Poi lo chiuse e lo passò a Salvatore. Metodico, pacato, freddo.
«Non mi hai detto di restituirgli il contenuto.»
No, non ero stata specifica nella mia richiesta.
Il fiato mi si spezzò in gola e strinsi i pugni per non mostrarmi
debole. I bambini, come gli adulti, riuscivano a fiutare la tensione e ad
approfittarsene.
Nessuna empatia verso i coetanei.
Difficoltà a stabilire un dialogo con insegnanti e assistenti sociali.
Gabriele aveva analizzato la mia richiesta e ristabilito le
posizioni in meno di un secondo.
Comandava lui, era stato questo il segnale lanciato ai compagni e
a me.
Cercai i suoi occhi, contrariata, ma prima di poterlo rimproverare
lui mi sorrise. Una leggera contrazione del labbro a sinistra.
Schivo. Alla ricerca di
approvazione.
No, lui non voleva imporsi a me. Gabriele cercava di stupirmi, di
dimostrami che lui era diverso. E lo era davvero.
«Consegna i pastelli. Tuo fratello ti starà aspettando fuori, non
perdiamo altro tempo» gli dissi, ben sapendo che era un colpo basso. «Martina,
chiudi l’armadietto, i pennelli non prenderanno il raffreddore» continuai.
Gli altri bambini erano pronti. Gabriele restituì a Salvatore gli
oggetti sottratti, poi io aprii la porta e attesi che uscissero.
Le altre colleghe già erano fuori dalle classi, il cicaleccio dei
bambini riempiva i corridoi dell’edificio.
«A domani» urlai all’indirizzo delle ragazze, ricevendo in
risposta sorrisi e saluti. Daniela mi ignorò. Sospirai.
Era l’unica collega con cui non ero in grado di stabilire un
contatto.
Perché ero una psicologa.
Cosa ci facevo in quell’istituto? A differenza di ciò che pensava
Daniela, non bastava un padre anestesista per trovare lavoro. Ero iscritta
all’albo e avevo da poco terminato la scuola di specializzazione, ma l’unica
occupazione che mi permettesse di avere un pizzico di indipendenza era stato
quel posto da educatrice.
Non ero l’unica psicologa lì a lavorare al di sotto delle proprie competenze.
Gli educatori ci odiavano.
«Toni non ci sarà» mi avvisò Gabriele, mentre ci avvicinavamo
all’uscita della scuola.
Non gli risposi subito. Aspettai che i miei bambini raggiungessero
le famiglie e le suore.
Non tutti tornavano in una casa.
«Lo aspetterò con te» risposi, quando gli altri si furono
allontanati. Solo allora mi permisi di toccarlo, posandogli una mano sulla
spalla.
Gabriele sussultò, ma non si allontanò.
Il cuore mi si riempì di tenerezza. Di pena.
«Doveva fare lo straordinario» mi comunicò.
Odiai il suo tono. Era sulla difensiva. Non l’avrei forzato, decisi,
anche se l’assistente sociale sosteneva che ero l’unica con cui riusciva a
stabilire uno scambio, pur pretendendone uno alla pari.
«Lo so, Gabriele» lo rassicurai, evitando di lasciar trapelare una
nota frustrata dalla mia voce.
Antonio Russo era un eroe per suo fratello. A ventisette anni
faceva al piccolo da padre e madre, oltre ad ammazzarsi di lavoro per mantenere
la loro famiglia disfunzionale.
Mantenni il contatto con la sua spalla e con l’altra mano azzardai
una carezza, ben sapendo di osare troppo.
Be’, non c’erano esami all’università che insegnavano a essere distanti,
freddi, imperturbabili. Mi accontentai, anche se avrei voluto abbracciarlo e
respirare il suo profumo di innocenza e Calvin Klein.
Ero sicura che lo usasse per imitare il fratello.
Gabriele si allontanò da me solo per frugare nello zaino alla ricerca
del cellulare. I sui gesti erano concitati. Aveva dimenticato di accenderlo.
«C’è traffico» borbottò tra sé e sé, dopo aver letto un messaggio.
Mi morsi l’interno delle guance per non ridere. Il mio primo
giorno di lavoro avevo dovuto sequestrare gli smartphone dei bimbi e il
cellulare economico di Gabriele. Era andata avanti così per qualche settimana,
ora non avevo bisogno più di metterli in borsa. Li spegnevano non appena entravo
in aula.
«Ti dispiace aspettare tuo fratello con me?» scherzai, per fargli
capire che per me non era un problema, ormai avevo smesso di contare sui
servizi pubblici per arrivare alla metropolitana. Troppo incostanti,
soprattutto dopo le sei del pomeriggio.
Gabriele sollevò gli occhi su di me e mi scrutò a lungo. In un
uomo, quello sguardo mi avrebbe messa in difficoltà. Era profondo, riflessivo, intenso.
«Toni dice che tu sei pazza» mi informò.
“Toni dice”, “Toni fa”, “Secondo Toni”… Era difficile che il
bambino iniziasse una frase senza nominare il fratello.
«Probabile» risposi. Dentro di me il disappunto si scontrava con
la curiosità di saperne di più, ma non toccava a me stabilire i tempi della
conversazione.
«Vi lasciano passare perché siete una maestra, ma Toni dice che è
pericoloso andare a Piscinola a piedi. I drogati non li controlla nessuno»
continuò Gabriele.
Non avevo bisogno di chiedere chi
mi avesse accordato il permesso per transitare nella zona. Avevo imparato un
paio di cose da quando lavoravo a Scampia.
«Se i pullman saltano le corse, non ho altra possibilità»
ribattei, ma non riuscii a evitare che un brivido mi attraversasse la schiena.
Non mi piaceva che Gabriele avesse una così chiara idea sul
contesto sociale in cui abitava. Erano tante le cose che non mi piacevano,
ancora di più quelle che mi spaventavano, ma non potevo fare nulla per quei
bambini, tranne cercare di dare loro un po’ di regole, di attenzione e affetto.
Gabriele non replicò, si limitò a guardare le macchine che
scorrevano lente su via Bakù, sede di una delle più grosse piazze di spaccio del
quartiere e… di una scuola.
«È lui!» gridò Gabriele, una decina di minuti dopo. Il cuore quasi
mi uscì dal petto quando si lanciò verso una macchina. Lo afferrai in tempo per
la felpa, mentre Antonio accostava al marciapiede.
«Non vogliamo farci ammazzare, vero?» lo rimproverai, il fiato
corto per la preoccupazione.
Gabriele mi guardò con i suoi enormi occhi scuri, senza capire,
l’eccitazione dipinta sulle guance appena arrossate.
Scossi la testa, rinunciando alla ramanzina. Era delizioso, un
bambino in attesa del suo idolo. Non c’era nulla di più innocente e puro di
quella reazione.
Mi accovacciai e gli diedi un bacio sulla guancia. Lui non ne
aveva bisogno. Ne avevo bisogno io.
Mi rialzai con un sorriso sulle labbra, intenzionata a portare a
casa con me il trionfo di quell’attimo di normalità, ma ben presto fu un’altra
l’emozione che mi accelerò il battito.
Antonio era sceso dall’auto ed era appoggiato alla fiancata della
Fiesta bianca, lo sguardo fisso su di me e suo fratello.
Strinsi i pugni per dominare l’ansia. Non servì. Sentii il mio
respiro accelerare mentre gli occhi scuri più profondi e circospetti che avessi
mai visto cercavano i miei e li forzavano per entrarmi dentro.
Gabriele si liberò dalla mia presa e corse dal fratello, che lo
sollevò tra le braccia e lo guardò giusto il tempo per ricevere un bacio sulla
guancia ispida. Poi i suoi occhi tornarono su di me, anche mentre ascoltava e
rispondeva alle domande di Gabriele.
Provai ad alzare una mano per salutarlo. Era una convenzione
sociale, un gesto educato. Ma il mio braccio pesava come un blocco di cemento,
e dubitavo di poter muovere qualche passo finché fossi stata sottoposta a
quell’esame.
Antonio non accennò a salutarmi, mi voltò le spalle e fece
accomodare il fratellino sui sedili posteriori. Attesi che facesse il giro
dell’auto e andasse via. Non successe.
La mia salivazione si azzerò mentre mi si avvicinava.
Non riuscii a guardarlo in viso. I miei occhi allora si
concentrarono sui suoi jeans stinti e sporchi di grasso, sulla T-shirt nera tesa
sulle spalle e i pettorali definiti. Le braccia erano coperte da tatuaggi. Non
sembrava sentisse freddo, anche se era l’inizio di Aprile e a quell’ora la
temperatura si abbassava parecchio.
«Greta».
Non aveva alzato la voce, eppure le due sillabe che componevano il
mio nome le sentii bene, nonostante lo strombazzare dei clacson e il rombare
dei motori. Era l’unico a chiamarmi per nome.
«Buonasera, Signor Russo» lo salutai educatamente.
«È tardi.» Due sole parole.
Aveva mosso appena le labbra, poi le aveva lasciate socchiuse,
come se dovessi aspettarmi altro, come se attendesse di bere le mie, di parole.
«Come ogni sera» risposi, avvertendo l’ansito nella mia voce.
Era troppo vicino. Invadeva il mio spazio personale con la sua
presenza cupa e silenziosa. Le persone come lui mi innervosivano. Ero abituata
a leggere le espressioni, le intonazioni, le parole.
Antonio non parlava, mi guardava, ascoltava. Era stato così sin
dall’inizio.
Nei mesi precedenti l’avevo visto poche volte. Era venuto da me
solo per accertarsi che la disgrafia di Gabriele migliorasse. Il bambino mi
aveva confessato che il fratello maggiore la sera gli scriveva le lettere
corrette per permettergli di ricopiarle.
«Ti accompagno alla stazione» disse dopo un minuto, una pausa
abbastanza lunga da fermarmi il cuore.
«Non ce n’è bisogno.» Non accompagnai la frase con un sorriso. Di
solito lo facevo. Quella di Antonio, però, non era una premura.
Era un ordine.
«Io credo di sì.» Non furono le sue parole a farmi fremere, né il
tono piatto e privo di colore. Ma i suoi occhi. Scuri, profondi, belli.
Non sbatteva le palpebre, l’avevo già notato in precedenza, quasi
ne avesse pieno controllo per tutto il tempo. Quando lo faceva, quei lembi di
pelle calavano a coprire l’iride con una lentezza esasperante. Era quello il
modo in cui comunicava l’assenso, le sue scelte, una risoluzione interiore.
La mascella forte e definita, invece, si serrava per indicare
disapprovazione.
Trattenni l’impulso di alzare una mano e massaggiarla per
sciogliere la tensione che la irrigidiva. Non potevo, ma ero abbastanza onesta
da ammettere con me stessa che desideravo toccarlo, accarezzare i suoi capelli
neri come la notte, più corti ai lati che in cima, affondare le unghie nelle
sue spalle solide che portavano un peso troppo grande.
«Non è un problema per me, lei e suo fra…»
Alzò una mano per bloccare il mio rifiuto e mi zittii. Non ero in
grado di mantenere un contegno impeccabile in sua presenza.
Provavo per lui un misto di timore, rabbia e stima che intorpidiva
le mie facoltà mentali allo stesso modo dei miei sensi.
«Non voglio spiegare a mio fratello il motivo per cui hai rifiutato
il nostro invito» scandì lentamente.
«Ho bisogno che lui ti rispetti.»
Sussultai, se ne accorse anche lui. Sentii la gola stringersi e
dovetti abbassare gli occhi perché non ero capace di sostenere quella
discussione, non subito.
È un meccanismo di autodifesa, mi vennero in soccorso gli anni
di studio. Lo riconobbi, ma la sua velata accusa mi colpì lo stesso.
Pensava avessi dei pregiudizi nei loro confronti? Mi giudicava
così superficiale?
Sì, perché non aveva detto di rispettarmi, ma che aveva bisogno
che lo facesse suo fratello.
Antonio non mi stimava.
Feci appello alla freddezza analitica che contraddistingueva la
mia professione. Non ci riuscii.
Lui mi aveva fatto male.
«Se non è un disturbo» cedetti, e non mi importò di sembrare
debole. In quel momento lo ero.
Fu uno shock sentire il calore delle sue dita intorno al mento. Mi
sollevò il viso e io spalancai gli occhi, mentre i suoi sondavano ogni
particolare della mia espressione.
Il mio stomaco si contorse.
I miei polmoni si svuotarono.
Il mio cuore smise di battere.
«Non lo è» sputò a denti stretti.
La sua presa divenne più forte, un modo per chiarire il concetto.
Mi sfuggì un gemito e lui mi lasciò, un dito alla volta, forse per prolungare
il contatto.
Senza dire altro si incamminò verso la macchina.
Sistemai la borsa sulla spalla e lo seguii, sorpresa che le mie
gambe collaborassero. Mi sembrava di non aver il controllo dei miei movimenti,
tutta la mia attenzione era calamitata dalla pelle che bruciava lì dove quella
di Antonio aveva impresso il suo marchio.
Mi aveva toccata.
Non doveva più accadere.
Sorrisi a Gabriele che mi guardava al di là del finestrino, il
viso quasi appiccicato al vetro, e aprii lo sportello.
Mi accomodai nell’abitacolo, Antonio era già al posto di guida.
Avrei dovuto dire qualcosa?
Antonio mise in moto senza aprire bocca, lasciando che il fratello
registrasse la nuova condizione e la analizzasse da solo.
«Ti piace la musica?» esordì Gabriele appena superammo il
porticato in Via Resistenza.
«Sì» risposi sovrappensiero. Lo striscione che campeggiava sulla
costruzione assorbiva sempre tutta la mia attenzione.
QUANDO LA FELICITÀ NON LA VEDI, CERCALA DENTRO.
Installazione a cura di Rosaria Iazzetta |
Era meglio non guardare dentro di me, finché fossi stata accanto
ad Antonio.
Gabriele si sporse tra i due sedili e accese lo stereo.
«A me mi piace il rap»
disse, ricadendo sul sedile, mentre le prime note di una canzone in dialetto
napoletano si espandevano nell’abitacolo.
«A me piace» lo corresse Antonio, gli occhi fissi sulla strada.
Spiai Antonio con la coda dell’occhio, sorpresa ancora una volta dal
suo particolare modo di parlare. Se non se ne fossero sentiti i suoni, nessuno
si sarebbe accorto che aveva appena messo in fila una manciata di lettere.
«Quali cantanti ascolti?» chiesi, interessata a quella nuova
dinamica. Era la prima volta che Gabriele parlava di se stesso.
Il bambino si spostò al centro, appoggiando le braccia tra i due
sedili anteriori. Mi voltai verso di lui per guardarlo e gli sorrisi.
Era adorabile. La versione in miniatura del fratello.
«A me piace la G.A.S Family» mi informò. Ero sicura che avesse
iniziato la frase in quel modo per far capire ad Antonio di aver compreso il
suo errore precedente.
«Tutti quanti ascoltano Rocco Hunt, ma quelle sono canzoni per
bambini. Shadaloo e i suoi amici fanno rap impegnato.»
Ci volle tutta la mia volontà per non scoppiare a ridere. Quella
risposta di sicuro non era farina del suo sacco. Be’, ora sapevo cosa pensava Antonio della musica.
"Quando il vento dei soprusi sarà finito, le vele saranno spiegate verso la felicità". Installazione di Rosaria Iazzetta. |
Mi misi in allerta solo quando Antonio, invece di proseguire per
via Galimberti, entrò nelle Vele.
Mi raddrizzai sul sedile e strinsi le mani sulla mia borsa.
Cercai di stare calma e di non agitarmi. In macchina c’era
Gabriele, cosa poteva succedermi?
Sono questi i pregiudizi a cui si
riferiva Antonio, mi informò
la mia coscienza. Vero, ma non riuscii a sentirmi in colpa.
Il cuore mi martellava nel petto.
Forse Antonio intuì il mio disagio, potevo interpretare solo così la
risoluzione sul suo viso.
Mi stava sfidando.
Si fermò alla seconda Vela dalla strada. Non spense il motore, ma
si frugò in tasca.
«Inizia a mettere la pentola sul fuoco» disse a Gabriele, dopo
avergli allungato le chiavi.
«Torni subito?» gli chiese il bambino, ma nella sua voce non c’era
ansia. Al contrario di me, quel soldo di cacio non aveva timore di guardare dal
basso quella costruzione mastodontica, di muoversi tra i rifiuti, la polvere e
la puzza di cibi avariati e di urina.
«Sì»
Vele, interno. |
«C-ciao» balbettai, cercando di recuperare compostezza.
Aspettammo che il bambino entrasse nell’edificio, poi l’auto
ripartì.
«È sicuro per lui?»
Le parole mi sfuggirono prima che potessi riflettere. Strinsi gli occhi,
maledicendomi per aver mostrato la mia apprensione.
«Intendi offendermi?» mi chiese, mentre guardava la strada alla
sua destra prima di immettersi nuovamente nel flusso del traffico.
«Io…» stavo per negare, ma la sua accusa di una decina di minuti prima
ancora mi bruciava e cedetti all’impulso infantile di vendicarmi. «Probabilmente
l’opinione che ho di lei non è migliore della sua nei miei confronti.»
Speravo di averlo infastidito, ma non ebbe reazioni, salvo quella
di spegnere lo stereo.
Ora che il fratello non era più in macchina, non aveva intenzione
di condividere con me la sua passione.
Era giusto. Ci conoscevamo appena, eppure quel gesto mi mortificò,
mortificò quella parte di me che da tre mesi desiderava disperatamente aiutare
i fratelli Russo.
Vele, interno. |
Non avevano nessuno, tranne l’un l’altro.
Era eticamente e professionalmente sbagliato pensare di poter fare
di più oltre a ciò che il mio ruolo imponeva. Mi ero attenuta al mio codice
morale, ma questo non mi impediva di essere preoccupata per loro.
Non mi impediva di pensare ad Antonio.
Madre: Sonia Aprea. Deceduta a
seguito del parto. Padre: Ciro Russo. In carcere dal 2012 per associazione
mafiosa, rapina, detenzione di droga.
Il fascicolo di Gabriele non era diverso da quello di altri minori
a rischio. Ciò che costituiva una nota stonata era il profilo del suo tutore.
Mi aspettavo che Antonio percepisse un sussidio di disoccupazione
e passasse le giornate ad arrotondare gli incentivi statali con lo spaccio di
droga. Invece si ammazzava per otto ore al giorno nello stabilimento
dell’Alenia a Pomigliano d’Arco. Costruiva aerei.
Proseguimmo in silenzio fino alla stazione della metropolitana. Come
molte cose nel quartiere, anche quell’edificio era incompleto e fatiscente.
«Grazie per il passaggio» dissi in fretta, appena Antonio accostò.
Volevo scappare da quel silenzio opprimente. Da lui.
Spense la macchina e si voltò verso di me, appoggiando il braccio
destro al poggiatesta.
Rimasi con la mano sulla maniglia ad aspettare un saluto che non
arrivò.
Antonio mi restituì un sorriso beffardo e un’espressione…
disgustata?
Stazione di Piscinola Scampia |
Mi voltai verso di lui, accomodandomi meglio sul sedile.
Quella situazione andava chiarita. Subito.
Potevo anche essere nervosa in sua presenza, ma non ero una
vigliacca.
«Non la stavo giudicando, ero solo preoccupata qualche minuto fa.
Gabriele ha sette anni, anche se entrambi lo dimenticate. Il vostro quartiere è pericoloso, al di là dei vostri
sentimenti di orgoglio e appartenenza. Lei, inoltre, gli attribuisce responsabilità
eccessive. Preparare la cena sarà anche una piccola cosa, ma Gabriele vive
diversamente le sue indicazioni e non si riconosce nei comportamenti dei suoi
coetanei.»
Proferii la mia diagnosi tutta d’un fiato. Non mi era sfuggito che
il sorriso strafottente aveva abbandonato le labbra del mio interlocutore.
Il suo petto si espandeva, ora, e tendeva la T-shirt; gli occhi,
fissi nei miei, erano stretti.
Nel buio della sera, con solo la luce arancione di pochi lampioni
a illuminare l’abitacolo, Antonio appariva come una figura inquietante e
minacciosa. Non mi sarei fatta intimidire.
«Hai finito?»
Anche la sua voce suonava diversa. Era più roca e profonda del
solito.
Un brivido mi attraversò la schiena.
Minaccia.
Pericolo.
Eccitazione.
«Sì» confermai con coraggio, poi mi voltai per andare via. Avevo
detto tutto ciò che c’era da dire.
Antonio mi afferrò appena in tempo, muovendosi in avanti per
raggiungermi.
Sentii le sue dita affondarmi nel braccio e mi ritrovai
schiacciata contro il sedile, gli occhi spalancati e il fiato corto.
Il suo viso era a pochi centimetri dal mio e, che Dio mi aiutasse,
non avevo paura.
«Da quanto tempo lavori?»
Non c’era bisogno che rispondessi. Ero sicura che genitori e
tutori fossero a conoscenza del mio curriculum. Cinque anni di psicologia. Tre
di specializzazione in psicoterapia. Avevo finito otto mesi prima.
«Sette mesi» sputai.
«Gabriele non è un bambino normale. La nostra non è una famiglia
normale».
E io non potevo usare le mie conoscenze per giudicare il loro ménage. Ci voleva esperienza per farlo,
quella che per Antonio io non avevo.
Avrei voluto piangere. Non perché mi sentivo messa in discussione,
conoscevo il mio valore. Ciò che mi stava scavando una voragine nel petto era
l’espressione di Antonio. Biasimo per me, rimpianto, senso di colpa.
Chiusi gli occhi.
Se avesse potuto dare di più a Gabriele, l’avrebbe fatto.
Non avevo alcun diritto di attribuirgli colpe per una condizione
che non poteva cambiare.
«Mi dispiace» esalai dopo un momento, optando per delle scuse. Se
non fossi stata sincera con lui, avrei complicato i nostri confronti futuri sul
rendimento del fratellino.
La sua mano si spostò dal mio braccio e mi circondò il collo.
Con il pollice spinse il mio mento verso l’alto.
«Sembri sincera» disse, dopo avermi studiato per qualche secondo.
Avrei dovuto sentirmi seccata per quella confidenza, ma non
riuscivo a pensare.
Il mio ventre era contratto e il mio cuore correva la maratona.
Chissà se lui lo percepiva sotto il suo palmo.
«Lo sono.»
Non c’era abbastanza aria. Era così vicino al mio viso che potei
notare il segno di una cicatrice sotto l’occhio sinistro e, nonostante
l’incarnato olivastro e i capelli scuri, delle leggerissime e minuscole
lentiggini sui lati del naso.
«Greta, Greta» ripeté, come se volesse assaporare il mio nome.
La erre, così antipatica da pronunciare per la maggior parte delle
persone, si arrotolava sulla sua lingua in un modo che mi faceva impazzire. «Acculturata
e piena di pregiudizi.»
Non gli avrei permesso di prendersi gioco del mio percorso di
studi, di me.
«Non le chiederò scusa. Non è una colpa aver avuto la possibilità
di studiare» mi accalorai.
La sua risata breve e roca accese le mie terminazioni nervose. Lo
divertivo?
«Non ti ho chiesto di scusarti.»
«Non è lei a stabilire cosa posso dire, né quando farlo» replicai,
l’eccitazione per quello scontro che mi scorreva nelle vene come champagne.
Il suo pollice scese ad accarezzarmi la gola e il fiato mi
abbandonò. Annaspai.
«Continui a dare del “lei” a un camorrista. Hai paura di me, forse?»
Spalancai la bocca. «Oddio, sei pazzo!» replicai, scandalizzata.
L’indignazione mi fece perdere il controllo e lui vinse.
Aveva ottenuto ciò che voleva. Maggiore confidenza, la mia rabbia,
il mio desiderio.
Le emozioni che provavo erano così confuse e intense… smisi di
essere una psicologa, un’educatrice. Divenni una donna.
Una donna attratta da un uomo criptico, taciturno, pericoloso.
«Tu sei diverso» mormorai. Non mi accorsi dell’attimo in cui
cambiò tutto, del momento in cui la sfida nei suoi occhi fu sostituita dalla
fame.
La mia stessa fame.
Si mosse troppo velocemente, forse mi mossi io. Ci incontrammo a
metà strada in un luogo in cui a dettare le regole erano le nostre lingue che
si intrecciavano, le sue mani che mi tenevano ferma la testa e le sue dita che si
immergevano nei miei capelli.
Non trovai un solo motivo per cui ciò che stavo facendo fosse sbagliato. Non
mentre allungavo le braccia per ancorarmi
a lui e affondavo le unghie nella sua schiena. Non ne trovai mentre il mio
stomaco si contraeva per il piacere e dalla mia gola uscivano gemiti di
godimento. Antonio li bevve tutti, baciandomi con l’ardore che avevo supposto
si nascondesse dietro la sua maschera cupa e inflessibile. E io mi arresi
all’attrazione che provavo da sempre, dalla prima volta in cui l’avevo visto e
avevo capito che uomo fosse. Un uomo pronto a sacrificarsi per chi amava e che
amava con tutto se stesso.
Avrei voluto che quel bacio disordinato e veemente non finisse
mai, che ci bruciasse fino a non lasciare nulla di Greta e Antonio, ma solo un
uomo e una donna che si volevano, si cercavano, si…
«Era diverso?» mi chiese, staccandosi da me all’improvviso.
Sbattei le palpebre, confusa.
Si risedette al suo posto.
Lo guardai senza capire, le labbra che ancora formicolavano per la
violenza del bacio.
«Era diverso?» ripeté, la voce malferma.
«Cosa?» balbettai. Istintivamente mi portai una mano alla gola.
Sentivo ancora la pressione delle sue carezze.
«Il bacio. L’esperienza con un delinquente di Scampia. Non siamo
così male, dopotutto. Ora avrai qualcosa da raccontare, Miss Posillipo.»
Era il discorso più lungo che gli avessi mai sentito pronunciare.
Per la prima volta, avrei preferito il silenzio.
Stazione Piscinola Scampia, interno. |
Era turbato ma, nonostante la mia resa, utilizzava le parole per svilire
se stesso e allontanarmi.
No, non era un delinquente, era solo un uomo con grossi problemi
di fiducia e la paura di mostrarsi vulnerabile.
«Credevo fossi diverso.»
Credevo fossi migliore. Afferrai la
borsa che era caduta ai miei piedi e scappai via sbattendo la portiera. Via da
lui, dalla sua rabbia, dalla sua volontà
di equivocare le mie parole per negarsi ciò che desiderava.
Non mi voltai indietro.
Solo quando mi sedetti nel vagone del treno, mi permisi di cedere.
Avevo scelto di arrendermi al mio bisogno di lui, ignorando tutte
le ragioni per cui era sbagliato, per cui era proibito.
Avevo scelto male.
E ora ne avrei pagato le conseguenze.
"Benvenuti a Scampia. Se credi in Scampia, troverai un mare d'amore" |
Siamo arrivati alla fine di questa prima puntata, che aveva lo scopo di presentarvi i personaggi e il contesto con cui si confrontano ogni giorno.
Spero che questo capitolo vi abbia incuriosito abbastanza da proseguire la lettura.
Vi ringrazio per aver dedicato il vostro tempo a questa storia, che mi auguro potrà riservarvi piacevoli emozioni.
Ho cercato di farvi vedere Scampia attraverso i miei occhi. Le immagini di degrado sono forti, ma vi assicuro che il quartiere non è solo questo, è altro... spero che rimarrete con me per scoprirlo.
Vi lascio delle note, seguendole potrete trovare degli approfondamenti su ciò di cui parlo e su ciò che cito. Una particolare menzione va alla G.A.S Family, il collettivo di cantanti rap napoletini (miei compagni di liceo) che con le loro strepitose poesie in musica stanno accompagnando la mia scrittura.
Spero di leggere i vostri commenti e di ritrovarvi ancora qui la prossima settimana.
Vi abbraccio.
Angela
NOTE:
* Vele di Scampia,
complesso di abitazioni a uso residenziali a forma di vele romane. Tra il 1997
e il 2003 sono state abbattute tre delle sette Vele. Si presentano in stato di
degrado.
** Istituto Montessoriano Antonio Fiumarelli, scuola paretaria situata a Casoria Arpino. Per necessità di trama ricollocato in Via Bakù, quartiere Scampia, Napoli Nord.
*** Rosaria Iazzetta, docente di Scultura all'Accademia di Belle Arti di Catanzaro. Per saperne di più sulle installazioni di Rosaria Iazzetta ---> http://tinyurl.com/hv3xl7k
**** G.A.S Family, collettivo di cantanti rap/hip hop napoletani. Per saperne di più ---> http://tinyurl.com/grv89go
***** Shadaloo, membro della G.A.S Family. Per saperne di più ---> http://tinyurl.com/jxvrzqa
****** Stazione
Piscinola Scampia, ospita la Linea 1 della Metropolitana. L'accesso principale
è in incompleto e in stato di abbandono.
BOOKTRAILER
Nuovamente hai presentato dei personaggi frutto della tua fantasia, frutto della tua dedizione e non posso che amarli. Il modo in cui riesci a costruire il mondo intorno alle tue storie è spettacolare. Vedere una parte di Napoli attraverso i tuoi occhi è un altro punto a tuo favore, si nota tutto lo studio e la passione che c'è dietro!
RispondiEliminaComplimenti.. Quando è la prossima puntata? ??
RispondiEliminagrazie mille tesoro. La prossima puntata sarà online Sabato 11
EliminaFra i due sensualità allo stato puro, e tanti troppi pregiudizi da ambedue le parti ma è un inizio davvero promettente e sono già innamorata di quel delizioso bambino e del suo scorbutico fratello
RispondiEliminaUn mondo diverso, lontano da molto, troppo reale per altri, raccontato attraverso gli occhi di una napoletana.
RispondiEliminaLa componente pericolosa, quella romantica e tanta passione repressa: ecco chi è Angela.
Bravissima!
Bellissima storia, ora però, dopo essersi baciati come proseguiranno i rapporti????? OMG sono suriosa!
RispondiEliminaMi piace! Non posso aspettare ogni settimana per sapere come prosegue! Sono troppo curioso! Bravissima come sempre :)
RispondiEliminaWowwww.... mi è piaciuto moltissimo e ora sono molto curiosa di sapere... spero ci sia un continuo
RispondiEliminaMa Nn si può leggere tutto insieme questo libro? Le pause mi uccidono! !!! Complimenti.💜 sei bravissima! !!!
RispondiEliminain pochissime righe mi hai catapultata nel mondo di Greta, Gabriele e Antonio! adesso non farci attendere troppo per i seguito!ps: come al soltio ben scritto e molto coinvolgente!
RispondiEliminaNon servono parole: bastano le tue a smuovere emozioni.
RispondiEliminaLascio che siano loro a raccontare‚ il resto lo sai.
Aspetto la prossima magia.
Bellissimo, Angela, sono stata catapultata a Scampia e, affascinata, non ho voglia di riemergerne e lui è meraviglioso.
RispondiEliminaSai che adoro le tue storie, quindi non mi ripeterò. Una sola domanda: a quando la prossima puntata? Ahimé, già fremo di impazienza!
RispondiEliminaSei una grande!! Sono affascinata dall' ambientazione che hai inquadrato, frastornata dalle emozioni che mi hai trasmesso, e non vedo l' ora di conoscere l' evoluzione della storia!
RispondiEliminaAspettavo il momento giusto da dedicare a questa storia che si preannuncia intensa e "non facile". Le emozioni corrono già dal primo capitolo, soprattutto per me che, indirettamente, conosco il contesto sociale che fa da palcoscenico ai tuoi personaggi. Aspetto il seguito ��
RispondiEliminaOh mio Dio.....semplicemente favoloso, la mia testa è già alla settimana prossima. Bravissima.
RispondiEliminaComplimenti sinceri, cara Angela. Scritto benissimo, con il cuore e le emozioni in primo piano a contendersi una realtà difficile da raccontare. ❤️
RispondiEliminaVeramente tanti complimenti Angela! Sei bravissima come sempre a coinvolgerci nelle tue storie. Mi piacciono sia Antonio che Greta, non vedo l'ora di scoprire come si svilupperà il loro rapporto.. <3
RispondiEliminaCome da previsione....Vulcanico!!! Con tutto il rispetto per i protagonisti romani degli tuoi romanzi YouFeel.... Antonio è ancora più accattivante!! Complimenti (ovviamente sono di parte) da Ottaviano con affetto;) Angela
RispondiEliminaBel primo capitolo, stuzzica la curiosità è il desiderio di leggere l'intera storia. Ho apprezzato molto i tuoi Youfeel e il tuo stile mi piace assai. Complimenti, leggero tutti i capitoli.
RispondiEliminaCorro a leggere la seconda puntata. Antonio.......
RispondiEliminaWowwww mi piace ... Mi hai incuriosito ... Aveva ragione la mia amica e' da leggere ! Ottimo consiglio
RispondiEliminaNon ho parole..coinvolgente..incredibilmente accattivante..già questo primo capitolo è intenso..bellissimo Angela..
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