venerdì 8 luglio 2016

SANGUE AMARO: Puntata #6


PUNTATA #6




«Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli, che ho molto peccato…» la voce mi si spezzò. Ripresi fiato.
«Per mia colpa» mi battei la mano sul petto con forza. «Mia colpa» ripetei, chiudendo le dita a pugno. «Mia grandissima colpa.».
Deglutii, poi continuai con la confessione stringendo con la sinistra la spalla di Gabriele.
Mio fratello.
La mia ragione di vita.
Chiesa Santa Maria della Spranza
Recitai il rito, saltando le parole che non ricordavo o seguendo quelle dalla comunità della chiesa di Santa Maria della Speranza.
Mi sentivo sporco, più del solito.
«Dio onnipotente abbia misericordia di noi» enunciò il parroco.
Mi mancava l’aria.
Le parole successive le mormorai insieme a Don Gaetano, anche se non era il mio turno. «Perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna.»
L’Amen di Gabriele si sentì al di sopra degli altri.
Serrai le mascelle e abbassai il capo.
Avevo la sensazione che la vergogna mi si leggesse sul volto.
Chiusi gli occhi e lasciai che il ritmo della liturgia mi calmasse, che le voci dei bambini del coro mi consolassero.
Anche Gabriele cantava, non insieme agli altri.
Lui era seduto al mio fianco e muoveva solo le labbra.
Voleva sentirsi parte della comunità, ma non sapeva come fare. Era troppo schivo.
Gli accarezzai i capelli e avvertii un nodo alla gola.
Canta per me.
Riportai l’attenzione sulla funzione. Un’ora di normalità, di conforto.
Non chiedevo altro.
Ero a metà del Credo quando il mio telefono vibrò. La prima volta lo ignorai. Le chiamate non si interruppero.
«Esco un attimo» mormorai a mio fratello.
I suoi occhi si spalancarono, allarmati.
«Non me ne vado» fui costretto ad aggiungere. Gabriele annuì, più tranquillo, anche se la sua postura era cambiata.
Camminai radente il muro per non disturbare i fedeli che stavano seguendo la celebrazione, per lo più genitori con figli piccoli.
Alla messa delle 9.30 partecipavano i bambini del catechismo. Avevo iscritto
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Gabriele con un anno d’anticipo con la speranza che potesse legare con i coetanei. Mia madre era stata molto religiosa. Avrebbe approvato la scelta.
Da allora ogni domenica lo accompagnavo in chiesa, anche ora che i corsi erano terminati. Se era con Don Gaetano, non l’avrebbero toccato.
Non ancora.
Oltrepassai il portone e respirai l’aria immobile del mattino.
Nonostante non fossero ancora le 10.00, il piazzale era inondato dal sole e la temperatura era proibitiva.
Sfilai il telefono dalla tasca e aggrottai la fronte quando notai le cifre sullo schermo.
Non era il numero di un cellulare, né aveva il prefisso di Napoli.
Chi poteva chiamarmi in un giorno festivo?
Non dovetti chiedermelo ancora per molto.
«Pronto» risposi al primo squillo, sorpreso dall’insistenza.
«Antonio Russo? La chiamo da Viasat.»
Strinsi le dita intorno allo smartphone, così forte che avrei potuto spezzarlo. L’avrei fatto, se non avessi dovuto rispondere alle domande dell’azienda di sicurezza satellitare.
Sì, ero il signor Antonio Russo, proprietario di una Ford Fiesta bianca del 2008.
Sì, quella che era parcheggiata in viale della Resistenza.
L’auto che avevo lasciato sotto casa con dentro le borse per il mare e i giochi di Gabriele.
«Abbiamo chiamato i vigili del fuoco e allertato la polizia locale.»
Mi passai una mano sul viso, il respiro alterato.
La vista si oscurò e dovetti sedermi su un muretto poco lontano, mentre rispondevo a monosillabi.
Non ero capace di articolare parole diverse da un “sì” e un “no”.
«Ha capito, signor Russo?» mi chiese l’operatore.
Avevo capito tutto.
Ringraziai e troncai la comunicazione.
Appoggiai i gomiti sulle ginocchia e mi presi la testa tra le mani.
Ogni mio muscolo era in tensione.
Tremavo.
Provai a inspirare e i polmoni bruciarono per l’immissione forzata di aria.
Ecco, ora occorreva fare il percorso inverso.
Espirare, bisognava espirare.
Portai il pugno alla bocca e strinsi i denti sulle nocche per impedirmi di urlare. Il dolore si irradiò dalla mano al braccio. Chiusi le palpebre, ingoiando un gemito di sofferenza.
Non mi aspettavo che reagissero così presto.
Non avevo avuto tempo per pensare, per organizzarmi, per tutelarmi.
Guardai l’edificio triangolare in cui avevo lasciato Gabriele.
Mi aspettava e non immaginava a quale pericolo l’avevo esposto.
Non ero stato in grado di proteggerlo.
Il suo Toni, il suo eroe, non era riuscito a fermarli.
Ritornai con la mente a due sere prima, riascoltai l’ordine di Genny di nascondere la droga in casa mia.
Ricordai la paura, il tonfo del mio cuore.
La decisione più difficile della mia vita presa nell’arco di pochi, dannatissimi secondi.
La mia coscienza. La vendetta dei De Lucia.
Avevo scelto, e ora la Fiesta stava bruciando.
Una fuga del motore a gas, aveva supposto l’impiegato di Viasat.
Come l’avrei spiegato a Gabriele? A Greta?
Come potevo dire loro che avevano appena iniziato a farmela pagare?
Il rogo dell’auto era la prima ritorsione per una scelta sbagliata.
Il mio orgoglio, il senso di giustizia, la volontà di restituire a mio fratello un futuro pulito avevano prevalso sulla ragionevolezza.
A Scampia il buon senso imponeva di tacere, di chiudere un occhio.
Se la cocaina fosse entrata in casa mia, ne sarebbe uscita il giorno dopo lasciando tutto immacolato, come se non ci fosse mai stata.
Ma io avrei saputo.
E non volevo assomigliare a mio padre.
Non volevo che il prossimo favore fosse più oneroso, che la volta successiva Gabriele fosse presente per vedere il suo idolo piegarsi al sistema.
Era capitato ad altri. Non mi ero mai ripreso dalla delusione, per questo le mie braccia erano coperte di nomi.
Mio fratello aveva imparato a leggere solo l’anno prima.
Finché non era riuscito a distinguere le lettere, non gli avevo spiegato il significato dei segni che mi macchiavano la pelle.
Ciro. Emanuele. Salvatore. Luigi. Francesco. Nicola. Domenico.
Chi non era morto per la droga, era stato portato via dai proiettili degli scissionisti.
Non mi ero concesso il lusso di dimenticare i miei amici d’infanzia.
Non volevo diventare un altro nome su una bara, o un tatuaggio commemorativo.
Non lo sarei stato, ma dovevo prendere delle contromisure.
Le mani tremarono mentre selezionavo nella rubrica il numero di Greta.
AGreta Mia.
L’avevo registrata così.
La prima vocale dell’alfabeto serviva a posizionarla in alto nel registro.
Il pronome possessivo… un attimo di cedimento.
Avevo scordato che ero destinato a perdere le persone che amavo.
Il telefono squillò tre volte prima che rispondesse.
«Antonio!»
Il cuore mi si strinse in una morsa.
Non mi chiamava Toni, sosteneva che il diminutivo sviliva il significato del mio nome.
Mamma l’avrebbe adorata.
«Dove sei?» le chiesi, la voce roca.
«Sto per uscire di casa. Non trovavo la crema protettiva» esclamò. Potevo sentire una traccia di affanno nella sua voce.
Era allegra.
Dovevamo andare al mare, come avevo promesso a Gabriele.
«Non venire dal Quadrivio. Conosci l’altra strada?»
Greta rimase in silenzio. Quando parlò, il suo tono era sospettoso.
«Potrei impostare il navigatore. Ci impiegherei più tempo, però» mi avvisò. Non aveva detto che avrebbe seguito le mie indicazioni.
«Prendi la tangenziale e poi la rampa su corso Umberto Maddalena. Ti porterà alla metropolitana» la istruii. Chissà se stava aggrottando la fronte. Adoravo quando lo faceva.
«Non andare alle Vele, vieni a prenderci fuori la chiesa…»
«Antonio, cosa succede?»
La sua voce era pressante, preoccupata.
Repressi un gesto di stizza.
«Nulla. Fuori la chiesa di Santa Maria.»
Non le diedi il tempo di rispondere e staccai il telefono.
Mi sfregai il volto, cercando di cancellare l’ansia e il senso di colpa. Erano attaccati alla mia pelle, li sentivo tra le dita, nei capelli.
Il nervosismo aveva un gusto amaro sotto la lingua.
Mi alzai e iniziai a camminare avanti e indietro, sbattendomi il cellulare sulla coscia destra.
Dovevo allontanare Gabriele.
Dopo sarei tornato a casa solo per dirigermi al commissariato.
E per cosa, poi? Una denuncia contro ignoti.
Guardai l’orologio. Mezz’ora e la celebrazione sarebbe finita.
Mi trattenni dal richiamare Greta. Non potevo chiederle di correre.
Mi sorpresi quando parcheggiò davanti alla chiesa dieci minuti dopo. Non sapeva ancora nulla e le era bastato ascoltare la mia voce per capire che non c’era tempo da perdere.
La vidi allungare le gambe affusolate fuori dall’abitacolo e infilare un paio di sandali.
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Aveva guidato a piedi nudi.
Non mi avvicinai. Non sapevo da dove iniziare, cosa dirle.
Sollevò una mano davanti agli occhi per ripararsi dal sole e si guardò intorno alla mia ricerca.
Come era bella!
Il vestitino a fiori sottolineava le sue forme, l’orlo svolazzante attirava lo sguardo sui polpacci torniti.
Signorile e raffinata anche per andare a mare.
Gli abiti non c’entravano nulla, pensai.
Era l’atteggiamento.
Quando mi individuò, si lanciò verso di me.
Potevo scorgere la confusione sul suo viso anche da lontano, eppure mi sorrideva. Greta mi sorrideva sempre.
Le mie labbra, invece, non furono capaci di curvarsi.
Le mie gambe non si mossero.
C’era una cosa che di lei mi aveva sempre colpito: sapeva leggermi dentro. Greta riusciva a capirmi, a interpretare i miei silenzi, a dare un senso ai miei pensieri. Per questo non mi stupii quando si immobilizzò, dopo aver incontrato il mio sguardo.
I pochi metri che ci separavano mi sembrarono un oceano.


***

Mi reputavo una donna forte.
Nella vita non ero mai arretrata di fronte alle responsabilità, gli ostacoli li avevo affrontati a viso aperto e avevo sopportato le conseguenze dei miei fallimenti al pari dei miei successi.
L’intuito, però, mi aveva sempre suggerito l’esistenza di cose in grado di spaventarmi.
In quell’istante capii che dall’espressione sul viso di Antonio sarei volentieri fuggita.
L’uomo che avevo di fronte era un estraneo.
Cosa gli era successo?
C’era più della rabbia nella sua postura, probabilmente nemmeno si rendeva conto di tremare.
I suoi occhi neri erano spalancati e ciechi, come quelli di un pazzo.
Mi ero sempre lamentata della necessità di dover leggere le sue microespressioni per comprenderlo. In quell’istante sembrava che le emozioni a lungo celate fossero esplose tutte insieme, rivelandosi in ogni centimetro del suo corpo.
E non c’era traccia di gioia o calore.
Angoscia, disperazione, furia, desolazione.
Paura.
Il cuore iniziò a battermi con forza.
Sapevo cosa mi stava accadendo. Gli anni di studio mi suggerivano che quella reazione si chiamava “fight or flight”, combatti o scappa. L’adrenalina era rilasciata dalle sinapsi nel sangue e raggiungeva i suoi recettori negli organi principali. Il fegato iniziava a bruciare le riserve energetiche, i bronchi si dilatavano, i muscoli si preparavano a uno sforzo insospettato, la pressione aumentava.
Il cuore poteva scoppiare.
«A… Antonio» balbettai. Riconobbi nel mio tono una richiesta d’aiuto.
Ero confusa e volevo che mi toccasse, che mi rassicurasse.
Dov’era Gabriele?
«Tuo fratello…?»
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«Sta bene» tagliò corto, rifiutandosi di incontrare i miei occhi.
Il sollievo mi indebolì le ginocchia e dovetti farmi forza per non cadere.
Mi ero svegliata con l’unico pensiero di passare una giornata diversa con i miei uomini. Ero eccitata come una bimba, talmente entusiasta da aver recuperato la fotocamera digitale e perfino quella tradizionale. Una non sarebbe bastata. Volevo ricordi, volevo i nostri sorrisi stampati sulla carta.
E ora? Antonio era inavvicinabile.
«Dov’è?» chiesi. In risposta si portò una mano alla tasca posteriore dei jeans ed estrasse il portafoglio. Tirò fuori una banconota da cento euro.
«Dovrai comprargli un costume» iniziò, allungando il braccio verso di me. Non avrei preso un solo euro.
Feci un passo in avanti, le gambe instabili. Dovevo raggiungerlo, prima che si chiudesse e mi escludesse.
Antonio arretrò.
Non riuscii a trattenere un’esclamazione di sorpresa. Di dolore.
«Sa nuotare, ma non farlo allontanare» mi raccomandò.
Scossi la testa per scacciare via la tensione e concentrarmi sulle sue parole.
Non capivo. Dovevamo fare questa gita insieme.
«Antonio, cosa succede?»
Finalmente alzò il volto. Avrei preferito che non l’avesse fatto.
Non mi vedeva, non davvero.
I suoi occhi erano vuoti.
«Puoi chiedere un permesso per un paio di giorni?»
Il tono interrogativo non sottintendeva una domanda. Non mi stava dando scelta.
«Sì, ma…»
«Puoi ospitare Gabriele?» mi interruppe. Parlava come se avesse una lista con delle voci da spuntare. Non si dava tregua e non la dava a me.
Respirai a fondo, optando per la calma, l’unico atteggiamento che avrebbe favorito il dialogo.
Dentro, tuttavia, l’angoscia mi divorava.
Perché non poteva seguirci?
«Sì, posso ospitarlo» lo tranquillizzai. Sospirò, come se non fosse certo di ottenere il mio aiuto. Non capivo perché ne avesse bisogno.
Dove doveva andare?
«Ti manderò un messaggio con gli alimenti da evitare» continuò. Parlava con me, eppure non aspettava che rispondessi.
Ero invisibile.
Avevo battuto tutti i limiti di velocità sulla tangenziale, attribuendomi la colpa dell’eccessiva preoccupazione. Sei la solita ansiosa, mi ero detta.
Ma questa volta avevo visto lungo ed era peggio di quanto avessi immaginato.
«Se gli dai la galattosidasi, può mangiare anche un gelato. Non alla panna. Lui lo sa. Non lasciarti imbrogliare.»
Si passò una mano sul volto per schiarirsi le idee, poi sgranò gli occhi, colpito da un pensiero improvviso. «Va comprata anche la galattosidasi. A Piscinola c’è una farmacia aperta la dom…»
«Dimmi. Cosa. Succede» scandii, incapace di fingere compostezza.
Faticavo a respirare e lui mi faceva una dannata lista della spesa?
«Niente, cazzo! Fa’ come ti ho detto!» urlò.
Sobbalzai e non riuscii a evitare di fare un passo indietro.
Prima, non avevo mai avuto paura di lui.
E non ero l’unica a provarla, ora. Antonio chiuse le mani a pugno, accartocciando la banconota. Il pentimento gli scavò sul volto rughe di tensione. Avvertii un dolore fisico al pensiero che potesse riconoscersi in suo padre per il solo fatto di aver alzato la voce.
Una parte di me voleva confortarlo, ma non osavo avvicinarmi. Ero turbata e Antonio mi stava affidando suo fratello, la luce dei suoi occhi, senza rivelarmene i motivi.
Non si sarebbe mai allontanato da lui.
Qualsiasi cosa fosse accaduta, era grave.
«Antonio, non voglio minacciarti a vuoto» gli dissi, cercando di tenere la voce ferma, ma suonai patetica alle mie stesse orecchie. Un lampo di frustrazione gli illuminò gli occhi. «Farò ciò che mi hai chiesto, non dubitarne. Se non mi parli del problema, però, quando verrai a riprenderti tuo fratello per noi sarà finita. Ci siamo già passati. Credevo di essere stata chiara.»
Era la cosa giusta da dire, eppure la reazione che mi aspettavo non arrivò.
Antonio… mi ignorò.
«La messa sta finendo» rispose, incamminandosi in direzione della chiesa.
Spalancai gli occhi, incredula. Le mie labbra si mossero, ma dalla mia bocca non uscì nemmeno un suono.
Tutto si fermò in me.
Il cuore, i polmoni, la stessa facoltà di pensare.
Per un interminabile secondo, il mondo sembrò svuotarsi di ogni colore.
Poi iniziò a crollare.
Rincorsi Antonio, rifiutandomi di capire.
Aveva rinunciato a me pur di tenersi i suoi segreti.
Lo afferrai per il braccio e lo strattonai finché non attirai la sua attenzione.
Un istinto irrazionale mi suggeriva di fargli male, di ferirlo fisicamente.
«Dio mio, dopo ciò che abbiamo condiviso tu… tu…» La voce mi si spezzò, il respiro fu sostituito da un rantolo.
Mi portai la mano libera alla gola. Sotto il palmo, il battito era irregolare e il petto si alzava e abbassava con violenza.
Non mi accorsi subito delle mani di Antonio sulle mie spalle. Mi stava scuotendo.
«Greta…? Cazzo!» imprecò.
Dopo il picco, i valori di adrenalina crollavano.
I bronchi si chiudevano, la respirazione diventava faticosa. La pressione arteriosa diminuiva di colpo.
Il libro di farmacologia recitava così.
Non diceva niente sui cuori spezzati.
Mi ritrovai seduta in macchina senza sapere come. Antonio era accovacciato davanti a me al di fuori dell’abitacolo.
«Greta!» lo sentii esclamare, mentre mi prendeva il volto tra le mani. «Cristo Santo!»
Mi divincolai e appoggiai la nuca al poggiatesta, gli occhi chiusi.
I miei polmoni si dilatarono, la prima volta con difficoltà.
«Brava, respira» mi incoraggiò Antonio. Sembrava angosciato. «Greta…»
Il mio nome sulle sue labbra fu un gemito addolorato. Nascose il viso nel mio ventre, le sue dita si aggrapparono alla stoffa del mio vestitino, le spalle erano scosse dai tremiti. Non potevo sopportarlo.
Aveva bisogno di me, ma io ero inadatta ad aiutarlo, non ero forte come un tempo. L’amore per lui mi aveva indebolita e, anche se avrei voluto offrirgli conforto, non sapevo come fare. Ero troppo sconvolta dal suo dolore, dal mio.
«Parlami» implorai. «Ti prego
Antonio impiegò qualche minuto per calmarsi e staccarsi da me. I suoi occhi erano lucidi, ma le guance asciutte.
Era così smarrito.
«Antonio» supplicai.
Mi prese entrambe le mani e mi baciò i palmi, il dorso. Prima la destra, poi la sinistra. Era un rituale.
Inginocchiato ai miei piedi, sconfitto, si stava scusando.
Il motivo non era quella discussione, ne ero certa, lo avvertivo nelle ossa.
Il mio istinto non mi aveva mai ingannata.
«Perché mi hai impedito di venire dal Quadrivio?» gli chiesi.
Il suo non era l’unico elenco. Ne avevo stilato uno anch’io, sin dalla sua prima indicazione.
Non passare dalle Vele.
«Non volevo che ti spaventassi.»
Trattenni una risata isterica.
Spaventarmi? Mi era bastato guardarlo in faccia per essere terrorizzata.
«Non volevi che vedessi» lo corressi, tracciando per lui un percorso da riempire con le risposte adatte. Per noi funzionava così. Lo avevo accettato e non potevo tirarmi indietro.
«Hanno… hanno dato fuoco alla Fiesta.»
Dio buono!
«C-chi?» balbettai, concentrandomi su di lui per non pensare alle implicazioni della sua frase.
«I De Lucia.»
Il clan che controllava la zona, quello per cui suo padre aveva immolato l’affetto dei figli ed era finito dietro le sbarre.
«Tuo padre?» gli chiesi.
Temetti che il cuore mi scoppiasse, quando lui scosse la testa.
Per un attimo, meno di un secondo, il sospetto avviluppò la mia mente, inquinò i miei pensieri, avvelenò i miei sentimenti per Antonio.
«Cosa ti hanno chiesto?» domandai subito, ritrovando il senno e l’intuito.
Il senso di colpa mi chiuse la gola. Ero disgustata da me stessa e pregai la mia coscienza di perdonarmi, perché c’era qualcosa di peggio dell’aver dubitato di lui: Antonio se l’era aspettato.
Potevo leggere quella certezza sul suo viso, la consapevolezza che sarebbe sempre stato oggetto di pregiudizi, di facili condanne.
Persino da me.
Gli presi il volto tra le mani. Me le tenne ferme con le sue.
«Oh Dio, cosa ti hanno chiesto?» Un singhiozzo mi sfuggì, senza che ne avessi alcun controllo.
«Volevano che tenessi un pacco di cocaina per loro» confessò Antonio.
I suoi palmi erano gelidi, nonostante la temperatura esterna.
Non c’era bisogno di porre la domanda successiva.
Le lacrime iniziarono a rigarmi le guance senza freno, mentre sperimentavo la vera paura, quella che annienta e ruba tutto: il calore, le emozioni, la speranza.
Scivolai dal sedile e Antonio si sedette sull’asfalto, sistemandosi in modo da consentirmi di adagiarmi sul suo grembo.
Nascosi il viso nel suo collo e piansi senza ritegno, perché non aveva più importanza mostrarsi forti senza esserlo, perché fingersi migliori era grottesco. Io ero così misera rispetto ad Antonio, egoista e superficiale.
Lui… lui era coraggioso, incredibile, puro.
Scampia aveva partorito un figlio il cui valore rendeva grigio e privo di meriti tutto il resto.
«Io ho detto no» sussurrò nel mio orecchio. Piansi più forte mentre me lo ripeteva ancora e ancora. «Ho detto no» insisté, comunicandomi quanto quell’unica sillaba gli era costata, quanto era stato difficile combattere contro una cultura, la sua cultura, contro una vita che insegnava a dire sempre di sì, a piegarsi, ad annichilirsi.
Lui aveva detto no.
E aveva condannato se stesso.
«Ti amo.»
Lo sapeva, ma avevo bisogno di dirglielo, avevo bisogno che lo sentisse, che le mie parole se le imprimesse nel cuore.
Avevo bisogno che non dubitasse mai della mia stima, della mia devozione, del mio appoggio.
Doveva sapere che l’avrei amato anche se avesse acconsentito.
La sua forza era nel cuore che batteva sotto il mio orecchio; la sua integrità si rivelava nelle scelte che compiva ogni giorno da sempre, da quando a diciotto anni aveva dedicato la sua vita a Gabriele, rinunciando a comode promesse, al tutto e subito, ai soldi facili, a una vita priva di responsabilità.
Niente l’avrebbe screditato ai miei occhi, nulla sarebbe stato in grado di corrompere l’immagine che avevo di lui.
Il mio amore.
Il mio eroe.
«Ti amo» ripetei, le unghie affondate nelle sue spalle. Volevo entrargli sottopelle, diventare parte di lui.
Non potevo perderlo.
Come saremmo sopravvissuti io e Gabriele?
Non esisteva un domani senza Antonio. La mia vita era cambiata il giorno in cui l’avevo incontrato e avevo scoperto il significato del vero amore: Antonio amava senza freni, con tutto se stesso, fino ad annullarsi.
«Volevo essere migliore del mio sangue. Per Gabriele. Per te. Per mia madre.»
La sua ammissione mi annientò.
Come poteva essere così cieco?
«Sei migliore. Lo sei sempre stato.» Mi scostai per cercare i suoi occhi. Il tormento scolpiva il suo volto. Cercava l’assoluzione, ma non c’era nulla da perdonare. «Sei incredibile e io ti amo. Gabriele ti ama. Tua madre ti amava.»
Le labbra mi tremarono, quando lo baciai. Uno sfioramento che racchiudeva la mia venerazione.
«Abbiamo bisogno di te» gli dissi, accarezzandogli il viso, consumandolo con la disperazione di chi pensa di non avere più la possibilità di farlo.
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«Dimmi che tutto andrà bene. Ti prego» lo implorai. Mi sarei accontentata anche di una bugia, di una mezza verità.
Antonio mi abbracciò forte e sentii sul collo l’umidità di una singola lacrima.
No, no, no!
«Antonio!»
«Tornerò da voi.»
Non l’avrebbe detto se fosse stata una menzogna, nemmeno per rassicurarmi. Smisi di trattenere i lamenti strozzati che mi affollavano la gola e mi permisi di accettare il conforto del suo corpo, delle sue braccia avvolte intorno a me. Era caldo, solido, vivo. Vivo.
«Cosa ti faranno?» balbettai, ancora timorosa di credere alle sue parole. La mia ignoranza mi stava uccidendo. Ero cresciuta a dieci chilometri da lui eppure non riuscivo a immaginare una via d’uscita.
Doveva esserci, lui ne era convinto.
Mi scostò per guardarmi. Divorai ogni linea del suo viso, le imperfezioni che me lo rendevano caro, la sua determinazione. Avrei dato tutto per avere la sicurezza di svegliarmi ogni giorno accanto a lui.
«Come sei bella» mormorò con la voce roca. Mi afferrò una mano e se la portò alle labbra. Era il suo modo per esprimere i sentimenti che nutriva per me. «Non lo so. Ma tornerò da voi. Di questo sono certo.»
Mi fidavo di lui.
Annuii e mi asciugai le guance. Dovevo essere all’altezza del suo coraggio. Volevo fosse fiero di me, quanto io lo ero di lui.
«Ti affido mio fratello.» Mi stava consegnando il suo cuore e la sua vita. «Non voglio che si spaventi. Gli diremo che devo partire per una trasferta di lavoro.»
«Okay» acconsentii.
«Lo so che ti sto chiedendo tanto, ma non so…»
Gli chiusi le labbra con un dito. «Tu puoi chiedermi qualsiasi cosa.»
Per Antonio avrei fatto tutto.
Un sospiro gli gonfiò il petto. Lo vidi lottare con l’incredulità e la tenerezza mi strinse il cuore. Non sopportavo che la sua vita e il suo passato l’avessero convinto di non meritare sostegno e aiuto.
Delle voci arrivarono dall’altra parte della piazza.
Mi alzai velocemente, lasciando libero Antonio di sollevarsi.
Mi allungai nell’abitacolo e frugai nel cruscotto alla ricerca degli occhiali da sole. Sarebbe stato abbastanza difficile per Gabriele allontanarsi dal fratello anche senza vedere i miei occhi arrossati.
«Non sparire, Antonio» mormorai, spostando la mia concentrazione sulle persone che stavano riempiendo l’ingresso della chiesa.
Lui intrecciò le dita alle mie. Insieme ci dirigemmo verso la calca.
«Stasera vi chiamo. Non portarlo a Scampia.»
Individuammo Gabriele sui gradoni.
Era teso, potevo vederlo anche da lontano. Spiava la folla alla ricerca di Antonio.
«Farò di tutto per distrarlo» promisi e la sua stretta si fece più forte in segno di tacito ringraziamento.
Quando Gabriele ci notò, non riuscì a trattenersi.
Iniziò a correre nella nostra direzione e lasciai subito la mano di Antonio per permettergli di prendere il piccolo fra le braccia.
Era spaventato.
Antonio gli mise un braccio intorno alla vita e l’altro dietro alla nuca, tenendolo come se fosse un neonato.
L’immagine minacciò l’equilibrio che mi ero imposta e dovetti mordermi le labbra per trattenere la commozione.
«Avevi detto che saresti tornato!» lo accusò Gabriele, ma non era nervoso.
Confuso, sì, bisognoso di rassicurazioni.
«Mi hanno chiamato dallo stabilimento» gli comunicò il fratello.
Gabriele non avrebbe potuto vederlo, ma io ero dilaniata dall’espressione di Antonio. Teneva le palpebre serrate mentre gli raccontava quella bugia.
Era troppo onesto per mentirgli, ma la necessità di proteggerlo tacitava la coscienza.
Quanto stava soffrendo!
Il peso che gravava sulle sue spalle avrebbe schiacciato chiunque, ma non lui.
Lo mise giù e si inginocchiò davanti al bambino, tenendogli le mani sulle spalle. Osservai Antonio spiegare al fratello che non poteva venire al mare con noi e che per un paio di giorni sarebbe stato fuori Napoli.
Pur credendolo impossibile, un sorriso mi curvò le labbra quando si fece giurare dal bambino di comportarsi bene e di non approfittarsi del mio buon cuore. Lo sguardo compiaciuto dello scugnizzo mi rese chiaro che conosceva bene i miei punti deboli, sapeva che non avrei mai fatto la spia.
L’umore di Gabriele cambiò quando Antonio iniziò a parlargli da uomo a ometto.
«Ti prenderai cura di Greta per me? Se qualcuno le dà fastidio, tu devi difenderla.»
Era una cosa dolcissima da dire e Gabriele raddrizzò le spalle, annuendo in modo solenne.
«Le femmine non sanno difendersi da sole. Ci penso io» promise. Fui indecisa se protestare. Quelle idee maschiliste non mi piacevano nemmeno un po’, ma non era il momento di lamentarsi: mi consentii di godere di quell’impegno di protezione.
«Comportati bene» concluse Antonio.
Gabriele sembrava sul punto di piangere, un altro bambino l’avrebbe fatto.
Ma lui era il figlio di suo fratello.
Forte, temerario, valoroso.
Antonio ci accompagnò alla macchina. Baciò Gabriele e gli allacciò la cintura di sicurezza.
Aspettai che Antonio facesse il giro dell’auto e mi raggiungesse.
Avrei voluto fargli mille domande, anche stupide, pur di ritardare il momento di dividermi da lui.
«Greta.»
C’erano così tanti sentimenti in quelle due sillabe.
Mi alzai sulle punte e lo abbracciai.
«Stai attento.»
Lui annuì.
Tirò indietro la testa e mi fissò. Mossi le labbra in un muto “Ti amo”.
Antonio mi sorrise prima di baciarmi come solo lui era in grado di fare, affidando ai movimenti della lingua i suoi sentimenti e le sue promesse.
Finì troppo presto. Non sarebbe mai stato abbastanza.
«Fa’ la brava» disse anche a me. Il suo tentativo goffo di farmi ridere.
Scossi la testa, divertita nonostante tutto.
«Russo, sei…»
Mi interruppe con un altro bacio.
«Hai il mio cuore.»
Non mi diede tempo di replicare. Staccò le mie mani dal suo collo e andò via, lasciandomi con gli occhi gonfi di lacrime e il cuore in tumulto.
Mi aggrappai alla portiera della macchina e respirai per calmarmi.
Quando mi accomodai alla guida, mi accorsi che gli occhi di Gabriele erano fissi su di me. Il bambino era l’unico motivo per cui non ero ancora crollata.
«Tu sei la sua donna» affermò, prima che mettessi in moto.
Non sapevo come rispondere, così annuii semplicemente.
«Te lo sposi?» mi chiese, curioso. Non c’era traccia di diffidenza nella sua voce, né condanna.
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Scoppiai a ridere e non smisi per un bel po’. Gabriele era troppo piccolo per intendere che non provavo gioia. Ero isterica.
«Se si comporta bene…» Lasciai la frase in sospeso e mi immisi sulla strada principale. In realtà c’era un solo modo per allontanarmi da loro: Antonio avrebbe dovuto mandarmi via a calci.
«Lui è bravo. Sono io che faccio sempre il cattivo» esclamò Gabriele, contrito. Chissà quante volte gliel’avevano ripetuto.
Tolsi la mano dal cambio e presi la sua.
L’avrei amato come un figlio.
«Mare o piscina?» gli chiesi.
Mentre il bambino si dimenava sul sedile al ritmo di “Mare, mare, mare!”, pensai ad Antonio, alle sue parole.
Tornerò da voi.



Benvenuti a Scampia. Basta crederci e trovi un mare di bene a Scampia.





Siamo giunte alla fine di una nuova puntata di Sangue Amaro, un episodio per me molto difficile. Non so se sono riuscita a trasmettere quanto è labile il confine tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. Stabilirlo è difficile.
È sbagliato scegliere la propria sicurezza e quella di un bambino?
Antonio ha scelto la strada della legalità, è un eroe, un bel personaggio.
Nella vita reale ci sono pochi Antonio.
La connivenza é un modo per sopravvivere, ma in alcuni casi è anche una cultura. Si viene allevati con l'idea di "saper campare", come si dice da noi, e per vivere bene devi scendere a compromessi.
Negli altri casi, invece, quando si ha chiara la differenza tra bene e male, la coscienza non dà tregua e la paura divora. Ci si piega ugualmente, perché un genitore non ha solo la responsabilità di se stesso.
Interrogatevi, dunque, chiedetevi se sareste disposti a mettere in pericolo i vostri figli. Chiedetevi cosa sareste disposti a fare pur di evitare di esporli alla visione di una macchina in fiamme. Domandatevi a cosa rinuncereste per donare ai vostri bambini un futuro in cui non devono preoccuparsi di nulla se non dei propri sogni.
È questo il tema di oggi. La mia è solo una delle mille possibili risposte.
Attenzione, io credo che combattere è possibile e doveroso, ma non ci si riesce da soli. La mafia toglie la sicurezza, e senza sicurezza non si ha nemmeno la speranza. La sicurezza si chiama Stato. La presenza delle istituzioni dà fondamento alla nostra coscienza civile.
Il problema di Scampia?
Non c'è bisogno di dirlo, le note degli scorsi capitoli sono abbastanza indicative.
Vi ringrazio per aver letto anche questa puntata e mi scuso con chi l'ha trovata troppo cupa e deciderà di abbandonare la lettura. Il mio intento con questo progetto era parlare di vita reale. C'è amore nei nostri giorni, ci sono i sogni, i successi, ma anche la paura, il conflitto, la disillusione.
Non bisogna mai sentirsi miseri, chiunque ha il coraggio delle proprie scelte è un eroe.
Vi abbraccio e ringrazio tutti voi che commentate i capitoli e li condividete. Il mio cuore ad oggi è più grande e la mia vita più ricca. È merito vostro!

Angela.





10 commenti:

  1. Meraviglia! Un crescendo d'emozioni unico ed incomparabile!
    Brava!

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  2. oh mamma mia!Il tuo Antonio è qualcosa di unico! Adesso altri 7 giorni di tortura....

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  3. Un capitolo forte, molto emozionante, anche se la scelta giusta potrebbe rivelarsi molto pericolosa. Molto ben raccontato, lasci sempre il lettore con la voglia di sapere subito che cosa accadrà, davvero brava.

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  4. Angela sempre più entusiasmante queste puntate, mi stanno sconvolgendo, in senso buono, Antonio è assolutamente unico. Ho però tanto timore di arrivare all'ultima puntata. La storia è troppo vera e non sono certa sul finale della storia. Sono completamente in ansia, Sei bravissima, a sabato prossimo, un bacio ciao.

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  5. bellissimo . non sempre l amore risolve le cose .in certi ambienti le complica.spero che alla fine tu faccia di tutto un libro .credo che la storia lo meriti.sei bravissima.spero di leggere tantissimo altro di tuo angelina.

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  6. Ero certa che per il bene del fratello Antonio avesse accettato di tenere la droga in casa. E invece, per il meglio per il fratello ha detto NO. Non ho sbagliato, è solo Antonio ha scelto la strada più difficile, ma è un eroe, e gli eroi non si piegano. Speriamo che gli eroi siano sempre di più. Grazie Angela, perfetto!

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  7. Ora sono in ansia. Devo attendere per forza. Sigh.

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  8. Bellissima anche questa puntata!è sucesso ciò che temevò. .Antonio e stato un grande..io non so se nella sua situazione conoscendo le conseguenze avrei detto no..davvero coraggioso..ma i nodi vengono sempre al pettine..come si dice da noi..e adesso sono guai seri..spero si sistemico le cose..continua così. .sei bravissima! 😍😘😘

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  9. Grazie per le bellissime emozioni.. Ho aspettato un po per leggerlo questo capitolo perché ero in vacanza e stasera mi sono messa comodamente sul divano e me lo sono goduta piano.. Le emozioni sono sempre in crescita e l'amore per la storia e personaggi e sempre di più. .. Bravissima tesoro. Complimenti

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  10. Nn può finire così! ! ! Angela bellissimo mi hai fatto piangere che tenero lui e che forza..... sentivo la sua sofferenza a ogni parola che leggevo
    un bacio da rosig

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