sabato 11 giugno 2016

SANGUE AMARO: Puntata #2


(Nell'indice potrete trovare il link alla Puntata #1)

PUNTATA #2



La prima volta che il cuore mi si era fermato avevo vent’anni. 
Il mese prima avevo perso tutto, eppure non ero crollato, anche se mio fratello aveva ammazzato mia madre.
Non avevo ceduto nemmeno al suo funerale. A cosa sarebbe servito?
Ero orfano, figlio di una donna che mi aveva amato troppo e di un uomo che non rispettavo, ma ero pur sempre la persona che lei aveva forgiato con i suoi sacrifici, con il suo dolore e la sua volontà.
No, abbattermi non sarebbe servito a nulla, c’era Gabriele di cui prendersi cura.
Anche se ogni volta che lo guardavo sentivo il risentimento ribollirmi nel sangue.
Non importava: avevo un compito.
Mamma lo aveva amato.
Avevo la responsabilità di tirarlo su come lei aveva fatto con me.
Ma Gabriele non cresceva.
Dopo un mese, a causa di un’intolleranza, aveva iniziato a perdere peso.
Era così piccolo tra le mie braccia, e diventava sempre più leggero, così dannatamente leggero… Non aveva nemmeno la forza di restare sveglio quel tanto che bastava per somministrargli il latte artificiale.
In quel momento avevo capito.
Sarei morto cento, mille, un milione di volte pur di sentirlo strillare per la fame, pur di percepire il suo respiro sulla spalla quando provavo a farlo addormentare.
Da allora avevo avuto un infarto dopo l’altro.
Quando cercavo di bagnargli le labbra con acqua e zucchero sperando che reagisse abbastanza da aprire la bocca per infilare il biberon. Quando nei mesi e negli anni successivi si ammalava. Quando ho dovuto lottare per ottenere la tutela legale.
Nemmeno la morte di sua moglie e un bambino in fasce avevano fermato mio padre.
L’avevo pregato di smettere di lavorare per il clan, potevamo fuggire e rifarci una vita da un’altra parte.
La fedeltà la doveva a me, a Gabriele, non ai De Lucia.
Ero diventato più grosso di lui, abbastanza da spaventarlo quando le parole non erano sufficienti e usavo i pugni per chiedergli di fare la cosa giusta.
Non mi importava che finisse in carcere ancora una volta, ma se avesse perduto la potestà genitoriale, avrei rischiato che mi portassero via Gabriele.
Era stato incriminato per associazione mafiosa.
Il suo secondogenito aveva appena tre anni.
Centro Penitenziario Napoli Secondigliano.
A ogni udienza per l’affidamento avevo perso un anno di vita.
In questo momento, mentre guidavo verso l’Istituto Montessoriano, ero certo che non me ne sarebbero rimasti molti da condividere con lui.
Un’ora prima mi era arrivato un messaggio dal cellulare di Gabrielino. Tenevo il mio nascosto sotto la tuta da lavoro, per essere sempre reperibile.
Lo aveva scritto Greta.
Non avevo nemmeno provato a richiamare, ero uscito con mezz’ora d’anticipo dallo stabilimento e ora stavo andando a scuola.
Gabriele sta bene, aveva specificato alla fine del messaggio.
Premurosa, davvero.
La dottoressa La Rocca era sempre impeccabile. Una femmina di classe, non potevo dire diversamente.
Non la vedevo da un mese, da quando era scappata dalla mia macchina.
Da quando l’avevo fatta scappare.
Suonai il clacson con violenza per intimare all’autista di muoversi e liberare l’incrocio. Non lo fece in tempo e lo sorpassai sulla destra.
Cambiai velocemente marcia e ripartii facendo stridere le ruote.
Il fottuto codice della strada non aveva la precedenza in quel momento.
Avevo bisogno di vedere mio fratello e tornare a respirare.
Parcheggiai nei pressi della scuola e feci appena in tempo a staccare le chiavi dal quadro prima di precipitarmi fuori dall’abitacolo.
Oltrepassai il cancello e salii le scale a quattro a quattro per raggiungere l’androne.
«Antonio!»
Greta mi stava aspettando all’ingresso. Era sola.
Dove cazzo sta mio fratello?
Non la guardai e provai a superarla per andare a cercarlo. Avrei scardinato una porta dopo l’altra finché non l’avessi trovato.
Greta mi si parò dinanzi, mettendomi le mani sul petto. «Prima ti parlo e poi ti porto da lui.»
Me le scrollai di dosso. «Le decido io le priorità.»
La voce mi uscì roca. Avevo la gola stretta dalla preoccupazione.
«No.»
La risposta di Greta schioccò come un colpo di frusta.
Spalancai gli occhi e la fissai.
«Ora tu mi dici…» iniziai, il fiato corto.
«Ora tu ti calmi, ascolti cosa è successo e poi ti accompagno da tuo fratello. Gabriele è già abbastanza turbato di suo. Non deve vederti in questo stato.»
Feci un passo indietro e strinsi i pugni. Respirai a fondo, cercando di dominarmi. «Cosa ha fatto?» chiesi a denti stretti.
Greta inclinò la testa a destra e mi studiò, poi annuì lievemente.
Si era accertata di aver colpito nel mio punto debole. Ora aveva tutta la mia attenzione.
«Vieni con me» disse, prima di voltarsi.
La seguii attraverso il corridoio deserto. Il ticchettio dei suoi tacchi rimbombava tra le pareti dipinte da disegni infantili e messaggi di speranza. Mi concentrai su quel rumore per escludere ogni pensiero nocivo.
Dovevo calmarmi. Se Gabriele si fosse fatto male, ero certo che l’espressione di Greta non sarebbe apparsa così distesa.
Avevo visto come guardava mio fratello. Lo adorava quanto lui adorava lei.
Era dolce con Gabriele, lo ascoltava e lo incoraggiava, anche quando era turbata. Il suo sorriso di fronte a lui non si era spento neppure quando l’avevo portata alle Vele per spaventarla.
«Ora parliamo con il preside. È una formalità, ma tu stai zitto, okay? Dopo prendiamo Gabriele e ce ne andiamo da un’altra parte.»
Istituto Comprensivo Statale Virgilio 4. Scampia.
È così grave?
Rimasi in silenzio. Non avevo altra scelta. Se avessi aperto bocca, avrei sicuramente detto qualcosa che non dovevo.
Gli anni trascorsi tra una convocazione e l’altra del tribunale dei minori mi avevano insegnato a non essere impulsivo. Il futuro di Gabriele dipendeva dalla mia capacità di mantenere il controllo in qualsiasi situazione.
Quando arrivammo in presidenza, Greta mi tenne la porta aperta mentre io mi accomodavo nell’ufficio.
«Buonasera, Signor Russo» mi accolse il preside. Gli strinsi la mano da sopra la scrivania. Non mi guardò negli occhi e si sottrasse subito alla presa. Vigliacco e viscido come al solito. Pensava di sporcarsi toccando un ragazzo dei quartieri?
«Si sieda.» Mi indicò una delle due poltrone in pelle marrone.
Greta si sistemò al mio fianco. La sua attenzione era tutta sul dottor Toscano.
Era guardinga.
«Buonasera.» Masticai la risposta tra i denti. Li tenevo così stretti da provare dolore alle gengive.
L’uomo si tolse gli occhiali e li appoggiò alla scrivania, tenendoli tra entrambe le mani.  Giocò con l’asta, facendoli ruotare prima a destra e poi a sinistra.
Che cazzo stava facendo? Cercava le parole giuste?
Altri tre secondi e non ce ne sarebbe stato bisogno. Sarei uscito da quella stanza così come vi ero entrato.
Strinsi i braccioli, pronto ad alzarmi.
«Gabriele ha litigato con un compagno di un altro gruppo» mi informò Greta tutto d’un fiato. Era intervenuta prima che facessi qualcosa di stupido.
«Con chi?» le chiesi.  
Lei era l’unica persona da cui pretendevo risposte. Per il preside non provavo un briciolo di rispetto. Il progetto per il recupero dei minori a rischio per lui era lavoro, qualche soldo extra. Per Greta era una vocazione.
«Non ha importanza» ribatté lei, scrollando le spalle.
«Ovviamente è mio dovere segnalarlo agli assistenti sociali» intervenne Toscano.
Il braccio di Greta ebbe un piccolo spasmo. Voleva darmi la mano?
Mi sforzai di ignorarla.
«Si sono fatti male?» domandai, ansioso di sapere se quella situazione sarebbe passata da “fottuto guaio” a “casino della madonna”.
«Qualche graffio» minimizzò.
Qualche. Graffio.
Chiusi gli occhi e mi passai una mano sul volto. Dio, non ero un tipo allarmista, ma la mia posizione legale dipendeva dai colloqui con l’assistente sociale e una segnalazione… Cristo santo!
«Ora Gabriele è tranquillo e ti aspetta.»
Aprii gli occhi e mi voltai verso Miss Posillipo. Aveva la dote di riuscire a dire sempre le parole di cui avevo bisogno per rivedere le mie necessità.
«Dov’è?» le chiesi, al resto avrei pensato dopo, quando io e Gabriele saremmo stati soli a casa nostra, nella nostra fortezza.
«Lo conduca dal fratello» suggerì il preside, rivolgendosi a Greta. «Mi raccomando, signor Russo. Non si può permettere altri episodi come questo. La tutela di Gabriele potrebbe essere ridiscussa in qualsiasi momento.»
Brutto figlio di…
Mi accorsi che ero balzato in piedi solo perché sentii il palmo di Greta sul petto.
«Mi segua, signor Russo.»
È una formalità, ma tu stai zitto, okay?
Strinsi le palpebre e fissai il preside negli occhi, godendo nel vederlo in imbarazzo. C’era solo un motivo per cui non si ritrovava con la faccia ammaccata, ed era la donna che era stata così lungimirante da prevedere un colpo basso.
Incollai il mio sguardo a quello dell’uomo finché non fui certo che il messaggio fosse arrivato a destinazione.
Greta mi diede un colpetto per farmi voltare e io la seguii fuori dallo studio, ma non riuscii ad andare troppo oltre la soglia. Mi appoggiai al muro del corridoio, il petto che si sollevava in modo irregolare.
Dov’era finita l’aria?
«Vuoi un caffè? C’è un distributore nella sala professori.»
Apprezzai il suo sforzo di distrarmi, ma doveva lavorare un po’ di più sul tono neutro. Sembrava angosciata per me.
Non risposi, fissai il pavimento di marmo e  esaminai le macchioline nere, bianche e beige finché non temetti di diventare cieco.
La mia mente era inquinata da pensieri che negli anni mi avevano tolto il sonno e che ora incombevano come minacce reali e non più come le preoccupazioni di un uomo troppo ansioso.
Se mi avessero tolto…
Sentii due mani piccole e fredde incorniciarmi il viso.
Tutto in me si immobilizzò. Alzai lentamente la testa.
«Dopo, ora non è il momento per pensare. Prendiamo Gabriele e andiamo via.»
L’aveva già detto. Andiamo via. Tutti e tre.
Sollevai una mano e premetti la sua sulla mia guancia, ipnotizzato. I suoi occhi verdi erano così pieni di comprensione, di dolcezza e decisione che guardarli faceva male.
Non credevo più nelle persone, tutte quelle che avevo amato mi avevano deluso, tradito o abbandonato.
Eravamo solo io e Gabriele da tanto tempo. Io, lui e una mezza dozzina tra avvocati, assistenti e operatori sociali.
Greta cos’era? Cosa rappresentava?
Era l’ennesima figura che sarebbe svanita una volta ultimato il lavoro.
Eppure in quel momento avrei voluto strappare la diffidenza da me. Avevo bisogno di credere alla sua premura, desideravo la sua tenerezza e il suo supporto.
«Non voglio il caffè» risposi. Lei mi sorrise. Aveva capito. Era riuscita ad andare oltre le parole e a leggere ciò che avevo dentro.
Volevo tornare a casa con mio fratello. E con lei.
«L’avrei preso con te, ma sono sollevata tu abbia rifiutato. È pessimo.»
Sospirai e lasciai andare la sua mano. Fu lei a non ritrarla subito. Mi accarezzò la guancia ispida con il pollice, prima di voltarsi.
Chissà se sapeva che il ricordo del nostro bacio mi aveva perseguitato per giorni. Insieme alle sue parole. Credevo fossi diverso.
Salii le scale al suo fianco, poi girammo a destra e ci avvicinammo alle classi.
Lasciai che lei entrasse da sola e arretrai per non essere visto.
Gabriele era orgoglioso, e anche se ora non meritava indulgenza, dovevo evitare di ferirlo inutilmente.
L’assistente sociale che seguiva il nostro caso era stata chiara in merito: non dovevo essere avventato o collerico.
Greta scambiò due parole con la collega e aspettò Gabriele sulla soglia.
Mi trattenni dal precipitarmi da lui quando uscì dall’aula e attesi che mi raggiungesse.
Non lo fece.
Appena Greta chiuse la porta, lui le si affiancò, la testa bassa nascosta dalla visiera del cappellino. Non accennò un solo passo verso di me.
Strinsi i pugni mentre lo stomaco mi si rivoltava per il dolore e la nausea.
Lo spaventavo?
Mi morsi l’interno delle guance e sollevai gli occhi al soffitto per non guardare Gabriele. La sua paura mi stava uccidendo. Mi stava strappando il cuore pezzo dopo pezzo.
«Andiamo, Gabriele» disse Greta, spingendolo verso di me. Gli teneva un braccio intorno alle spalle.
Non era il suo ruolo, cazzo!
Era da me che mio fratello doveva cercare appoggio e conforto.
Era da me che doveva sentirsi protetto.
Diressi il mio sguardo infuriato su di lei, anche se non aveva alcuna colpa.
Greta sgranò leggermente gli occhi, come se l’avessi colpita, il colore le abbandonò le guance.
Digrignai i denti. Non me ne fregava niente del suo dispiacere, volevo solo allontanare il mio.
Gabriele si fermò di fronte a me. Greta non lo mollava.
Se non avesse allentato subito la presa, fanculo ai rapporti civili che avevamo intrattenuto fino a quel momento.
«Ga…»
Non riuscii ad articolare le ultime tre sillabe del nome di mio fratello, la voce mi si spezzò prima. Quasi mi strozzai nel tentativo di deglutire un groppo di angoscia. Aprii la bocca per riprovarci, ma Gabriele alzò il viso e tutta l’aria che avevo nei polmoni mi abbandonò insieme alla ragionevolezza.
Crollai sul pavimento davanti a lui e lo afferrai per le spalle, forse strinsi troppo, ma lui non protestò mentre gli studiavo il viso livido e il profondo graffio che gli solcava la guancia destra.
Gli occhi sembravano enormi nel suo faccino affilato, ed erano pieni di vergogna, come quelli di mamma quando papà la picchiava e la convinceva di meritarlo.
Se fai a botte e le prendi, non ritirarti a casa altrimenti ne avrai altre.
Mio padre non aveva mai minacciato a vuoto, e aveva convinto anche me. Cerca di fortificarmi, mi ero ripetuto la prima volta che mi aveva spaccato il labbro con uno schiaffo, o quando mi aveva rotto il polso. Ero persuaso che i figli si educassero così. Per me stesso l’avevo sopportato.
Ma poi era arrivato Gabriele.
Sette anni fa non avrei mai immaginato, nemmeno per un fottuto secondo, che sarei stato disposto a qualunque cosa pur di non far provare a mio fratello un solo grammo di dolore. Non avrei mai creduto che un semplice livido sulla sua pelle levigata mi avrebbe fatto così male.
Gli spostai le mani sulla gola e gli feci alzare la testa per guardarlo meglio.
Tremavo, e non solo perché ero accovacciato e caricavo il mio peso sulle punte.
«Come stai?» chiesi, la voce roca.
Mi ritrovai le sue braccia esili intorno al collo prima che potessi sbattere le palpebre. Recuperai subito l’equilibrio e mi sollevai in piedi, tenendolo stretto al petto, come quando era un neonato e si addormentava ascoltando il battito del mio cuore. Nascosi il viso nel suo collo e chiusi gli occhi, respirando a pieni polmoni. Ora andava tutto bene. Stavo bene.
«Andiamo a casa?»
La voce di Gabriele era flebile, umiliata. Non era spaventato da me, realizzai, pensava di avermi deluso. Sapeva di avermi deluso.
Annuii contro la sua guancia e lui si arrampicò sulle mie spalle per mettersi comodo.
«Non ti addormentare» lo avvisai.
Non sarebbe stata la prima volta che si assopiva per non confrontarsi con me. Cercai gli occhi di Greta e li trovai lucidi.
Abbassò subito la testa, nascondendo la commozione.
«Vieni con noi.» Doveva suonare come una domanda, ma non ero capace di essere gentile. Avevo bisogno del suo parere, dei suoi consigli.
Era una psicologa, dopotutto.
Hai bisogno di lei.
Greta annuì, senza aggiungere una parola. La accompagnammo in sala professori per prendere la borsa e la giacca, poi ci dirigemmo alla macchina.
Mi tenne la portiera aperta mentre adagiavo Gabriele sui sedili posteriori.
Era stanco e provato.
Feci il giro della macchina e mi sedetti al volante. Fui sorpreso quando vidi Greta occupare il posto accanto a mio fratello.
No, “sorpreso” non era la parola adatta. Ero turbato e… grato.
Feci finta di non dare peso a quel gesto e misi in moto.
Vista dei balconi delle Vele, realizzati secondo il principio del
Funzionalismo.
Percorsi i trecento metri che separavano la scuola dalle Vele guardando più lo specchietto retrovisore che la strada.
Gabriele si era addormentato appena mi ero immesso sulla carreggiata. Solo allora Greta aveva iniziato ad accarezzarlo.
Parcheggiai nei pressi dell’ingresso più vicino al mio appartamento. Non spensi subito il motore, mi presi un secondo per riflettere.
Sarebbe cambiato tutto.
Lo sapevo io. Lo sapeva lei.
«Non svegliarlo» le ordinai. Non era il momento di affrontare Gabriele.
Un problema alla volta.
«Non l’avrei fatto» mi assicurò. Annuii lievemente e scesi dalla macchina.
Quando sollevai Gabriele, feci attenzione a non muoverlo troppo.
Lui gemette, infastidito, ma non si svegliò.
Greta recuperò lo zainetto e chiuse le portiere, mentre io mi avviavo verso l’androne.
«Non la chiudi?» mi chiese, e mi trattenni dallo scoppiare a ridere.
Non serviva. Se avevo una macchina, era perché mi era stato consentito di possederla.
Era incredibile come fossero diverse le nostre vite, anche se eravamo cresciuti a non più di dieci chilometri di distanza.
«No» risposi senza voltarmi.
Lasciai che osservasse quell’aborto architettonico delle Vele senza che si sentisse in dovere di mostrarsi indifferente.
Ero cresciuto lì e ancora impressionavano me.
Non mi era difficile immaginare di vederle con gli occhi di Miss Posillipo.
I balconcini squadrati, le scale asimmetriche, le cancellate sui corridoi di raccordo tra le abitazioni. Sembrava un carcere. Era una tomba.
Cassetto metallico celato dietro una mattonella.
Azionabile con un telecomando. Utilizzato per
il deposito della droga in una piazza di spaccio.

Entrammo nell’atrio che puzzava di urina e marijuana. Eravamo troppo vicini alla piazza di spaccio dei De Lucia, e a quello non riuscivo a farci l’abitudine.
Avevo fatto richiesta per ottenere un altro alloggio popolare lontano da Scampia, ma le liste per l’assegnazione degli appartamenti erano infinite e, nonostante la situazione delicata di Gabriele, c’erano persone che ne avevano più bisogno. Io almeno avevo un lavoro sicuro, anche se non mi permetteva di pagare l’affitto in una zona migliore.
Presi le chiavi dalla tasca e le allungai a Greta.
«Puoi aprire tu?» le chiesi quando arrivammo al primo piano.
«Certo!»
Le afferrò facendo attenzione a non toccarmi.
Quella riluttanza mi infastidì, ma non era ancora il momento di parlare. Sapevano già che era a casa mia, non c’era bisogno che alle vedette fossero riferite anche le nostre conversazioni.
Le indicai di volta in volta le chiavi per aprire i tre cancelli che ci separavano dalla mia abitazione.
Chissà per quale utilizzo erano stati realizzati. Sembravano essere stati costruiti apposta per incoraggiare i residenti a chiudere fuori la polizia al fine di favorire le fughe.
«Quella lì» dissi, facendo un cenno con il capo in direzione della porta di casa.
Mentre Greta inseriva la chiave nella toppa, liberai la mano sinistra per farmi il segno della croce.
Scena dal set di Gomorra - La serie in cui si può osservare
uno dei cancelli che dividono gli appartamenti delle Vele
in settori.
Mio padre aveva dato solo dispiaceri a sua moglie, ma non si era opposto alla richiesta di costruire appena fuori la soglia una nicchia in cui alloggiare la statua della Madonna del Carmine. Mia madre posava ogni mattina una rosa ai piedi del simulacro e di sera accendeva una candela votiva. Diceva che solo se si fosse presa cura della Madonnina in quel modo, le sue preghiere sarebbero state ascoltate.
«Ecco» esordì Greta, una volta riuscita a vincere la serratura difettosa.
«Entra» le ingiunsi. Intuii che era troppo beneducata per farlo senza che le fosse concesso.
Sorrisi quando la sentii mormorare “È permesso?”. Certe abitudini erano difficili da accantonare, anche in situazioni in cui le buone maniere erano superflue, se non proprio fuori luogo.
«Aspettami in cucina.»
Non mi preoccupai di farle strada. L’appartamento era un buco di quarantacinque metri quadrati, giusto lo spazio per due stanzette, un bagno e la cucina.
Entrai nella cameretta di Gabriele, tenendo le spalle contro la parete.
Era così piccola che non riuscivo a muovermi comodamente, non con lui tra le braccia.
Deposi il mio sonnecchiante fardello sulla trapunta primaverile, poi presi la copertina ai piedi del letto e lo coprii. Non faceva freddo, ma lui vi si avvolgeva anche in estate. In quel modo si sentiva al sicuro.
Gabriele si girò sul fianco destro. Le iridi si muovevano rapide sotto le palpebre sottili. Mi accovacciai nello spazio ristretto e allungai una mano per spostargli i capelli dalla fronte.
Era un bel bambino, il testamento di mia madre. Era così simile a lei che ancora oggi c’erano volte in cui non riuscivo a guardarlo, altre in cui ne avevo bisogno al punto da contare i minuti che mi separavano dalla fine del turno.
Avevo solo lui. Il mio sangue. La mia carne.
Chiusi gli occhi e sospirai.
Cosa dovevo fare con Gabriele? Con Greta?
Mi alzai e la raggiunsi in cucina.
Vele di Scampia, interno.
Mi appoggiai allo stipite e incrociai le braccia sul petto. Ora che potevo, mi concessi il tempo di guardarla. Era seduta vicino al tavolo ed era così straordinariamente fuori posto. Un faro che illuminava l’umidità sulle pareti, che persisteva nonostante le tinteggiassi ogni estate, la miseria del mobilio e la mancanza di elettrodomestici. Il contrasto tra i suoi abiti firmati e la tuta da lavoro, che nella fretta non avevo fatto in tempo a togliere, era un altro motivo che rimarcava le nostre differenze.
«Posso offrirti qualcosa?» le chiesi. Scosse la testa.
Non rinunciai alla mia posizione. Sapevo di metterla in difficoltà. Era scritto nei suoi occhioni verdi spalancati, nel modo in cui si tormentava le mani.
Io non mi sentivo più a mio agio di lei.
«Cosa succederà, ora?»
«Il vostro colloquio con l’assistente sociale sarà anticipato. Gabriele dovrà incontrare lo psicologo. Vorranno capire il motivo dei suoi scatti di rabbia.»
Annuii e mi spostai, afferrai la sedia e mi accomodai accanto a lei. «Me lo porteranno via?»
Era tutto ciò di cui mi importava, gli incontri con lo psicologo non mi spaventavano. Ormai c’ero abituato.
Greta sorrise e allungò la mano, afferrando il mio pugno appoggiato sul tavolo. Mi fece distendere un dito alla volta, poi lo voltò in modo che esponessi il palmo.
Deglutii e strinsi gli occhi per non vedere il contrasto tra la sua pelle bianca come il latte e la mia, rovinata dal lavoro.
I calli giallastri, il grasso dei motori che si infilava sotto le unghie, in ogni piega, sulle impronte dei polpastrelli. Non riuscivo a pulire tutto lo sporco, anche se non smettevo mai di provarci. Certe cose non si lavavano con l’acqua e il sapone, restavano impresse nella carne, nel cuore, nell’animo. La storia della mia famiglia mi insozzava il sangue.
Provai a liberare la mano. Non me lo permise.
Era tutto un errore.
Cosa avevo pensato di fare portando Greta a casa mia?
Di dimenticare chi ero solo perché lei era così folle da sentirsi attratta da me?
Solo perché la volevo disperatamente da quel giorno di settembre in cui mi aveva sorriso come se non fossi ciò che ero, un ragazzo che sopravviveva nel sudiciume e non riusciva a trovare una via d’uscita nemmeno per il bene di suo fratello?
«Antonio, Gabriele ha bisogno di un aiuto in più» esordì Greta, intrecciando le mie dita alle sue. «Deve essere seguito privatamente da uno psicologo» continuò, la voce decisa.
«Te ne puoi occupare tu?» Faticai anch’io a percepire la mia voce. Non riuscivo a parlare, come ogni volta in cui le difficoltà mi strozzavano le corde vocali.
Vele di Scampia, scalinata interna.
Chiedere per me non era semplice, ma speravo lei accettasse. Non sapevo come muovermi, non sapevo cosa fare.
«Guardami, Antonio» mi chiese gentilmente, anche se il suo era un ordine.
Alzai gli occhi su di lei e fui stordito dalla delicatezza dei suoi lineamenti, dalla curva piena delle labbra che avevo assaporato, della consistenza della pelle che avevo toccato. L’avevo allontanata con parole brutali, eppure era ancora qui e cercava di aiutarmi. Era intelligente e aveva capito che non credevo nelle frasi che le avevo rivolto.
«Non posso occuparmene io, sono troppo coinvolta e non sarei imparziale. Parlerò con una mia collega. La dottoressa Grimaldi ti piacerà, è stata lei a seguire la mia tesi di laurea. Una donna con le palle, vedrai!»
Sorrise incoraggiante e io smisi di pensare. Non mi era mai apparsa così bella come in quel momento.
«Perché lo fai?» le chiesi, riuscendo a sfuggire alla sua presa. La diffidenza era marchiata a fuoco nel mio animo. «Se è una scopata quella che cerchi, non hai bisogno di giocare al buon samaritano.»
Greta scoppiò a ridere, una risata di gusto. Scosse la testa, i lunghi capelli castani le accarezzarono le spalle.
Si alzò e venne da me. Sinuosa ed elegante come una pantera, e allo stesso tempo così dolce e tenera… l’avrei divorata!
Con le ginocchia mi aprì le gambe e si sedette sulle mie cosce.
Smisi di respirare.
Mi prese il viso tra le mani e mi abbagliò con il sorriso più luminoso che avessi mai visto. «Non c’è dubbio che finirò nel tuo letto, Antonio. Ma mi assicurerò che quando accadrà non sarà solo una scopata.»
Mi accarezzò i capelli sulle tempie, sondando la mia espressione.
Sembrava allegra, spensierata, mentre io non riuscivo a credere alle mie orecchie e probabilmente non avevo mai avuto gli occhi così sgranati.
«Io sto aiutando Gabriele, perché gli sono affezionata e perché è il mio lavoro» chiarì prima di baciarmi la punta del naso. «Non sto aiutando te.»
Le afferrai il collo, per impedirle di avvicinarsi. Non riuscivo a riflettere. Ero sopraffatto dal suo profumo, ma non mi sarei lasciato andare senza prima capirla. Senza fidarmi di lei. «Cosa vuoi da me?» 
Greta alzò gli occhi al cielo e sospirò. Mi prese la mano e la spostò dalla sua gola alla guancia. «Mi piace il modo in cui mi tocchi.»
Sussultai, le mie dita iniziarono ad accarezzarla senza che ne avessi controllo.
«Greta…» Era un avvertimento.
Non mi sarei distratto, anche se la desideravo al punto di sentirmi spezzato in due.
«Non è il luogo da cui provieni ad attrarmi» mi disse, inclinando la testa per permettermi di affondare le dita nella massa serica dei suoi capelli.
Erano morbidi, setosi.
«Nessuna sindrome della crocerossina. Il mio lavoro è aiutare le persone e lo esercito ogni giorno.»
Accostai il suo viso al mio e poggiai la fronte sulla sua. Avevo il respiro alterato, il suo soffiava lieve sulle mie labbra.
Stavo bevendo le sue parole come se la mia sopravvivenza dipendesse da ogni singola lettera. Bruciavo dal desiderio di sfiorare la sua bocca.
Non ancora.
«Te» ansimò. «Voglio te.»
Le afferrai un fianco e la spinsi contro il mio corpo, curve morbide contro muscoli. Volevo annegare nella sua pelle.
«Perché?» ringhiai.
Mi ritrassi e cercai i suoi occhi. Lei non riusciva a tenerli aperti, ma io avevo bisogno di vedere, di capire.
«Per ciò che sei. L’uomo che stimo e che desidero.»
Annullai la distanza tra le nostre labbra e le risposi nell’unico modo in cui ero capace, forse il solo che contava. Le divorai la bocca e assaporai i suoi gemiti, lasciai che si ancorasse a me con le sue braccia snelle e forti, mentre io la cingevo in una morsa brutale.
Mi aggrappai a lei, al suo calore, alla sua generosità. Tenni stretta la donna che aveva ignorato l’attrazione che c’era fra noi e aveva pensato prima a trovare una soluzione per Gabriele e solo dopo a se stessa e a ciò che voleva.
E voleva me.
Come io volevo lei, anche se forse non sarei mai riuscito a dirlo.
Ma il mio cuore batteva con forza, e ogni tonfo era per Greta.
Rallentai il ritmo, la dolcezza prevalse sulla passione e l’urgenza.
La lasciai andare solo quando i polmoni protestarono per la mancanza d’aria.
Le presi il viso tra le mie mani luride, indegne.
Mi piaceva toccarla.
Mi sorrise, gli occhi le brillavano come stelle.
Le piaceva il mio tocco.
Aveva le guance arrossate e le labbra gonfie e umide. La sua pelle era così vellutata e chiara che se non fossi stato attento, l’avrei scorticata.
Dovevo andarci piano con lei.
«Me lo fai un sorriso?» mi chiese.
Mi morsi l’interno delle guance per bloccarne uno spontaneo.
Scossi la testa e lei rise, deliziata.
«Mai un attimo di cedimento, Russo» mi prese in giro.
Mossi i pollici sui suoi zigomi alti e lisci. La tenerezza mi gonfiava il petto.
«Ti creerà problemi a scuola?» domandai, preoccupato che la nostra relazione potesse procurarle delle seccature.
Sarebbe stata una relazione. Su questo non c’erano dubbi.
Lei era mia.
«Tra quindici giorni termina la scuola. L’anno prossimo non torno all’Istituto.»
Sospirai per il sollievo e solo allora la accontentai: le sorrisi come mi aveva suggerito.
Gli occhi di Greta si riempirono di desiderio e quando parlò, la sua voce era arrochita dal bisogno. «Dovresti farlo più spesso.»
«Non ne ho motivo.»
La sua espressione cambiò nello spazio di un secondo. Divenne comprensiva, risoluta.
Si spostò in avanti, allontanando le mie braccia e avvolgendomi le spalle con le sue. Mi tenne stretto al suo seno e mi baciò la sommità del capo.
«Hai Gabriele, hai… La notte non può durare per sempre
Ascoltai le sue parole con gli occhi chiusi, il viso adagiato sul suo cuore.

Mi concentrai su quella frase, che era stata la colonna sonora della mia infanzia, e sul battito forte e regolare di Greta.
Avevo anche lei.
Sarei riuscito a fidarmi delle mie speranze?
Non ne ero sicuro.


Benvenuti a Scampia. Basta crederci e trovi un mare di bene a Scampia.




 
Sono sorpresa e commossa. Sieti stati in tanti a leggere la prima puntata e i vostri commenti mi hanno scaldato il cuore. La vostra partecipazione mi ha fatto capire che questa è la strada giusta da percorrere, anche se forse non è la più comoda. 
Sangue Amaro, infatti, sarà la storia di amore puro, bellissimo,  ma intriso di verità. Non sarà una favola.
Mi auguro che la seconda puntata vi sia piaciuta. Come avrete notato, ogni settimana intreccerò alla storia un tema diverso. 
In questo episodio vi ho mostrato le difficoltà che si incontrano nello gestire una famiglia disfunzionale in un contesto di degrado, la paura con cui convivono i genitori affidatari e i tutori (a Scampia nuclei familiari simili ce ne sono molti).
Il percorso di Gabriele, Antonio e Greta sarà ancora lungo, perché a volte la determinazione non basta e gli eventi hanno il sopravvento sulla volontà.
Non temete, è pur sempre un romance... forse! :P
Come la scorsa settimana vi lascio delle note, seguendole potrete trovare degli approfondamenti su ciò di cui parlo. 
In particolare, vi segnalo una gallery con delle foto scattate da un fotografo di Repubblica a Scampia, davvero suggestive, e soprattutto una intervista fatta da Famiglia Cristiana all'ex commissario di Scampia Michele Spina, che chiarirà alcuni aspetti sulla nascita del quartiere e sul funzionamento di una piazza di spaccio.
Spero di leggere i vostri COMMENTI e di ritrovarvi ancora qui la prossima settimana.
Vi abbraccio.
Angela



NOTE:



* 'A pupatella 'e zuccher ---> ciuccio artigianale realizzato anticamente con un fazzoletto di stoffa annodato all'estremità. All'interno viene inserita una zolletta di zucchero e la parte anteriore viene bagnata. Veniva utilizzato per calmare i bambini e integrare lo scarso allattamento.


* * Vele di Scampia, complesso di abitazioni a uso residenziali a forma di vele romane. Tra il 1997 e il 2003 sono state abbattute tre delle sette Vele. Si presentano in stato di degrado.

*** Centro Penitenziario Napoli Secondigliano, operativo dal 1992. Rapporto sulle condizioni del carcere dell'associazione Antigone  ---> http://tinyurl.com/zuq8cne

**** Istituto Montessoriano Antonio Fiumarelli, scuola paretaria situata a Casoria Arpino. Per necessità di trama ricollocato in Via Bakù, quartiere Scampia, Napoli Nord, nei pressi dell'Istituto Comprensivo Statale Virgilio 4 (in una foto nel testo)

***** Istituto Comprensivo Statale Virgilio 4, istituto con tre ordini di scuola: Scuola dell'Infanzia, Scuola Primaria, Scuola Secondaria di Primo Grado. Gli alunni che la frequentano provengono in larga parte dalle Vele e dal quartiere Sette Palazzi.
Costruito negli anni '80 insieme al quartiere Scampia.

****** Michele Spina, ex dirigente del commissariato di Scampia. Il commissariato è stato istituito nel quartiere nel 1997, dopo esattamente quindici anni dal popolamento delle Vele. I quindici anni di assenza delle istituzioni su un territorio ad alta densità abitativa (oltre ventimila persone abitavano le sole Vele), hanno favorito la nascita e l'organizzazione della criminalità e la creazione di oltre venti piazze di spaccio.
Intervista a Michele Spina --->  http://tinyurl.com/hn59y93

******* Piazza di spaccio, palazzi, androni, sottoscala utilizzati per la vendita di droga, in cui i portoni vengono sostituiti con blindati senza chiave bloccati all'interno con staffe di ferro.


******** Reportage fotografico su Scampia a cura di Repubblica --->  http://tinyurl.com/zjz3rvf



ALCUNE CONSIDERAZIONI LINGUISTICHE:
Trasportare in italiano alcune frasi marcate regionalmente non è una operazione semplice. L’utilizzo del punto di vista di Antonio mi ha posto il problema di come rendere al meglio pensieri ed espressioni che il protagonista articolerebbe in dialetto oppure in italiano regionale. Infatti, anche chi non usa il dialetto come prima lingua, parla e scrive in modo non esente da regionalismi. È un esempio l’abitudine tipica del Nord di mettere l’articolo davanti ai nomi propri e di non usare il passato remoto nel parlato, o ancora la prevalenza dei costrutti con il gerundio nel Salento e così via… Siamo un popolo linguisticamente molto ricco.
Dunque, come rendere al meglio alcune espressioni in un italiano medio e comune?
Vi indico due punti precisi nel testo:

1 - Se fai a botte e le prendi, non ritirarti a casa altrimenti ne avrai altre.
L’espressione corrente nel napoletano, non esente da variazioni locali, è: “Si puort ‘e mazzat a cas, aie o’ riest” (Se porti le mazzate a casa, avrai il resto).
In un primo momento avevo reso la prima parte della frase con “Se perdi in una rissa”. Questo è il significato di “portare le mazzate”.  MA, l’espressione resa da me non era in accordo con il personaggio di Antonio, e ancor di più non lo era con quello del padre. Scriverla come avevo pensato, sarebbe stato artificioso e inverosimile.
La soluzione che ho adottato, che non sarà certamente la migliore, ma quella che ho ritenuto più opportuna, mantiene l’intenzione della frase dialettale, adattandola a un lessico più semplice. Il “perdere in una rissa” è diventato “se fai a botte e perdi”. Il significato è lo stesso, ma la seconda frase si avvicina di più alla caratterizzazione dei personaggi. Io, da autrice, ho preferito adeguare la lingua alle loro necessità piuttosto che alle mie. (Studi linguistici simili sono stati portati avanti da molti autori, due su tutti che hanno lasciato molte testimonianze in tal senso sono Alessandro Manzoni e Giovanni Verga).

2 - La notte non può durare per sempre.
L’avete riconosciuta? Eduardo De Filippo nella celeberrima Napoli Milionaria utilizzò l’espressione “Ha da passà ‘a nuttata” (deve trascorrere la notte) per indicare la speranza di superare le difficoltà e i periodi bui.
L’espressione del teatro eduardiano, però, non è unica!
Il riferimento alla notte come foriera di problemi e al suo superamento si trova in molti testi letterari e religiosi.
Ne è un esempio “Non c’è notte che non veda il giorno” di William Shakespeare, oppure il verso “La notte mai più scenderà” del canto religioso Resta con noi Signore la sera.
Greta, a differenza di Antonio, ha appreso il dialetto non come prima lingua ma fuori dall’ambiente familiare. In una situazione di tensione o forte emozione, non penserebbe alla frase in napoletano, anche se da noi è molto comune, ma si esprimerebbe nella sua lingua naturale che è l’italiano.
Dopo moltissimi tentativi, tra cui la ripresa di un verso di Vecchioni “Questa notte dovrà pur finire” della canzone Chiamami ancora amore e “Non può piovere per sempre” tratta dal film Il Corvo, ho scelto una frase intermedia che combini il significato della notte con la speranza che essa non si protragga per sempre.

Spero che le due soluzioni vi sembrino coerenti. Io ce l’ho messa tutta (ho impiegato più tempo a sistemare le due frasi che a scrivere il capitolo!).
Baci :*



BOOKTRAILER 


20 commenti:

  1. "Non sto aiutando te" perché per lui prova qualcosa che va oltre lei, oltre lui ed oltre la realtà in cui vivono. Ogni puntata sempre più bella!

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  2. Assolutamente fantastico, grazie Angela. E' davvero un regalone quello che ci stai facendo, ma io scalpito fino a sabato prossimo. Comunque mi abituerò a questa attesa e con gioia attendo la prossima puntata. Baci.

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  3. Mamma mia, emozione allo stato puro! Ho letto questo secondo capitolo col batticuore. Continua così Angela.. ti auguro grandi cose, te le meriti! <3

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  4. Sempre più bello.. Più emozioni. Bellissima puntata.. Complimenti ancora Angela...

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  5. E come si fa a non innamorarsi di un uomo come Antonio, per lui sarebbe stato tutto più semplice se avesse lasciato che del fratellino se ne occupasse lo stato, forse avrebbe avuto la possibilità di andarsene e di costruirsi una vita lontano, e invece è rimasto nonostante le difficoltà ed è riuscito ad allevarlo nonostante fosse un bambino dalla salute fragile. Sono poche le donne che sarebbero indifferenti di fronte ad uomo così. Bellissimi personaggi e una scrittura emozionante.

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    1. Grazie Lucia, davvero! Per lui sarebbe stato molto più semplice lavorare per il clan. Ed è quello che succede a molti, troppi, a Scampia. Anziché ammazzarsi per 900 euro all'Alenia e sopravvivere nelle Vele con il fratello, avrebbe potuto fare la vedetta per 50 euro al giorno. Così inizia la "gavetta" criminale: dal palo al corriere fino al carcere più vicino.

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  6. Bello anche il secondo capitolo. Ti sono grata per le scelte linguistiche, per chi non è di Napoli, come me, sarebbe stato difficile leggerle senza sottotitoli, comunque non ne ho sentito la mancanza. Sarà che seguo Gomorra in TV e devo utilizzarli perché non capisco assolutamente nulla. Va beh, un po' ho imparato...

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  7. Letti entrambi tutti d'un fiato!!! Non vedo l'ora di leggere il prossimo "capitolo". Mi piace molto il contesto in cui hai inserito la storia... Il rapporto tra Antonio e Gabriele è di una dolcezza infinita!!
    :) Ila

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  8. Fantastico! " a da passà a nuttata" è la mia massima di vita, aggiungo "panta rei" di Eraclito e "per arrivare all'alba non c'è altra via che la notte" di Gibran, così per restare in tema me ne farò una ragione e aspetterò l'alba di sabato prossimo.
    Perfetto, perfetto davvero

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  9. sei cresciuta ulteriormente dal primo capitolo..davvero brava Angela!mi sembrava di essere li con loro.il punto di vista di Antonio è pazzesco!adesso come si fa ad aspettare sabato prossimo?

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  10. Assolutamente perfetto. Storia straordinaria. Sarà un bellissimo libro,Angela. Spero tu possa pubblicarlo per intero

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  11. Bravissima Angela...
    Sangue amaro mi travolge sempre di più..
    Non può piovere per sempre è una frase che mi ripeto sempre...
    Complimenti hai la mia stima������

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  12. Bravissima Angela...
    Sangue amaro mi travolge sempre di più..
    Non può piovere per sempre è una frase che mi ripeto sempre...
    Complimenti👏👏👏

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  13. Ciao Angela, devo farti i miei complimenti, ho letto entrambi i capitoli e mi sono piaciuti moltissimo. Tramite le tue parole sono stata proiettata in un contesto difficile e doloroso come quello di Scampia e sopratutto sono rimasta colpita dal personaggio di Antonio. La sua integrità e volontà di non cercare scorciatoie per avere una vita migliore e più facile per sé stesso, bensì la determinazione di fare e sopportare qualsiasi fatica affinché sia il piccolo Gabriele a non dover subire o sopportare altro dolore nella sua già provata giovane vita. La dolcezza ed abnegazione di questo ragazzo verso il fratellino è ammirabile e viene ripagata dall'adorazione che Gabriele nutre per il suo eroe. Toccanti lescene dei due come il loro rapporto. L'uno è l'ancora per altro, è palese l'affetto che li lega. E per qualsiasi donna sarebbe veramente difficile non sentirsi attratta da un uomo come Antonio. Se poi ci aggiungi che è pure un bel ragazzo, allora è quasi impossibile ;)
    Come non comprendere Greta?!? ;)
    Sono molto curiosa di leggere gli sviluppi fra i due, l'attrazione è palpabile ;)
    Complimenti vivissimi, si sta' profilando una bella storia :)
    Mary

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  14. Angela, tu hai il potere di incollarmi alle pagine. Non aggiungo altro.

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  15. Stupendo Angela veramente complimenti !!!! sono molto colpita ed emozionata da questo racconto nn riesco a staccarmi nn vedo l'ora di leggere la 3 puntata a sabato <3

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  16. Ciao Angela ti faccio i miei complimenti e una storia bellissima e Antonio è fantastico.....Nn vedo l'ora che sia sabato <3

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  17. Bellissimo. Volevo ricordarti un altro proverbio napoletano trasposto in inglese diceva: when good good more black than midnight can't came here. Brava

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