sabato 18 giugno 2016

SANGUE AMARO: Puntata #3


(Nell'indice potrete trovare il link alle Puntate #1 e #2)

PUNTATA #3



Frequentare Antonio Russo richiedeva grande pazienza e spirito di adattamento.
Quando mi baciava, tutto l'universo si accordava su un’unica, magnifica sinfonia. Ma non potevamo sempre baciarci, e parlare rappresentava ancora un problema.
Erano passati solo quattro giorni da quando avevamo definito la nostra relazione. Sempre che toglierci le mani di dosso appena in tempo per non farci scoprire da Gabriele potesse indicare un impegno stabile.
Da allora non avevamo avuto un momento per stare insieme. Ogni pomeriggio veniva a prendere me e Gabriele a scuola, riportava il bambino a casa e poi mi accompagnava alla stazione della metropolitana.
Se provavo a chiedergli della sua giornata, mi zittiva con un bacio mozzafiato e mi lasciava andare, arruffata e stravolta, a prendere il treno.
Non avevo avuto molte relazioni, ma ero abbastanza onesta da sapere che in quel modo non sarebbe durata a lungo.
Lo conoscevo poco, quanto bastava per farmi battere il cuore quando lo guardavo.
Volevo sapere di più.
Volevo sapere tutto.
Lungomare di Napoli. Foto panoramica scattata dalla
Chiesa di Sant'Antonio a Posillipo.
Mi ero trattenuta dall'affrontarlo solo perché sabato era vicino e Antonio mi aveva proposto di fare una passeggiata.
Ora camminavamo mano nella mano su via Caracciolo e il lungomare non mi era mai parso così bello.
Gli ultimi raggi di sole donavano al cielo una calda tonalità rosata, il Castel dell'Ovo proiettava la sua ombra sul mare cupo e immobile.
Si sentiva nell'aria un odore salmastro, unito a una traccia di frittura di pesce e al profumo più intenso della legna che ardeva nei forni delle pizzerie.
Era ormai un anno che il comune aveva liberato il lungomare dal traffico rendendolo una zona pedonale, e io e Antonio passeggiavamo al centro della strada, sullo sfondo il profilo del Vesuvio, bellissimo e minaccioso, intorno a noi altre coppie e qualche artista che già si stava posizionando per suonare qualche ballata al violino.
Per una volta il silenzio non mi dispiaceva, perché mi parlava, mi sussurrava la bellezza della mia città, la pace… l'amore.
Lo condividevo con Antonio.
«Gabriele poteva venire con noi. Non mi sarebbe dispiaciuto» gli dissi, pensando che si sarebbe divertito un mondo su un risciò.
La mano di Antonio si chiuse intorno alla mia con più forza, solo per un attimo, poi si rilassò.
Lungomare di Via Caracciolo e via Partenope.
«La signora Rosaria l'ha invitato a dormire da lei. Non l'avrei lasciato a casa sua se non mi fidassi.»
Respirai lentamente e mi presi il tempo per riflettere bene su come rispondergli. Non era stata mia intenzione mettere in dubbio la sua decisione, ma i meccanismi di difesa erano così radicati in lui che ogni conversazione poteva trasformarsi in un campo minato.
«So che ti fidi di lei» ripetei, per fargli capire che non lo giudicavo. Non avevano una famiglia a cui appoggiarsi, non era strano che il nucleo relazionale si estendesse ai vicini di casa.
«È una brava persona.»
Lo so!
«Suo figlio ha la stessa età di Gabriele, vero?» cercai di cambiare argomento. Sapevo di sbagliare, dovevo affrontarlo, non assecondare la sua diffidenza. Ma una parte di me, quella più egoista, voleva godersi quella serata, quello scampolo di normalità.
«Sì.»
Un monosillabo, tutto ciò che riusciva a offrirmi quando non inventavo un modo per estorcergli qualche parola in più.
Deglutii un groppo di dispiacere e ansietà.
Volevo che le cose tra di noi andassero bene, lo volevo così tanto da non riuscire a fare la cosa giusta, a pronunciare le parole adatte.
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Chioschetto sul lungomare Via Partenope.
«Tarallo e birra?» gli chiesi quando passammo nei pressi di un venditore ambulante. Mi morsi le labbra, sperando con tutta me stessa che accettasse di fermarsi e di guardare me. Non il mare, i tavoli dei ristoranti, gli alberghi di lusso. Solo me.
Annuì e ci dirigemmo verso il rivenditore. Antonio prese il biscotto salato per me e due birre. Mi aiutò a sedermi sulla balaustra che dava sul mare e vi si appoggiò con entrambe le braccia, la bottiglia di Corona tra le mani.
Osservai il suo profilo dall’alto e il cuore mi si strinse in una morsa.
Era così inavvicinabile, eppure era mio.
Lo era davvero?
«Ne vuoi un po’?»
Spezzai il silenzio allungandogli il tarallo. Lui si raddrizzò e arretrò per guardarmi, l’espressione indecifrabile.
Poi sorrise.
Allungò una mano e con il pollice mi accarezzò un angolo della bocca.
«Briciole» mi informò.
Arrossii ma non permisi all’imbarazzo di fermarmi. Gli afferrai il polso e lo attirai più vicino a me. Divaricai leggermente le gambe e lui si sistemò al centro. Appoggiò la bottiglia accanto a me, sul parapetto in pietra, e finalmente sentii i suoi palmi sulle mie cosce.
Erano freddi.
«Apri la bocca» ordinai. Obbedì e schiuse le labbra. Gli offrii un morso del mio tarallo e dovetti resistere dal gemere quando la sua bocca si chiuse sulle mie dita in un bacio.
Era il momento più eccitante e intimo che avessi mai vissuto.
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Birra Corona extra e taralli nzogn e pepe. Nelle note la ricetta.
Antonio riusciva a riempire ogni gesto di un inconsapevole erotismo. C’era in lui una sorta di sensuale selvatichezza nel modo in cui chiudeva gli occhi, nella sua postura vigile eppure rilassata, nell’espressione remota, superiore.
Aveva la grazia di un predatore, una carnalità animale e sfacciata cui non sapevo resistere.
Ritirai la mano e appoggiai il tarallo accanto a me. Non sarei riuscita a ingoiare più un solo boccone.
Sospirai, indebolita dal desiderio al punto da far fatica a tenere la schiena eretta. «Non è corretto» esordii.
«Cosa?» mi chiese Antonio, e c’era così tanta arroganza nei suoi occhi che non potevo credere alla sua curiosità.
Oh, al diavolo!
«Sto per baciarti» lo avvisai, poi gli presi il viso tra le mani e catturai quella bocca che mi faceva impazzire.
Sentii i suoi palmi infilarsi sotto il giacchetto di pelle e risalirmi lentamente lungo la schiena. Non sotto la maglietta.
Gemetti con disappunto ma, quando le nostre lingue si intrecciarono, ogni pensiero fu soffiato via dalla tempesta di sensazioni che Antonio sapeva scatenare in me.
Ci staccammo e notai i suoi occhi brillare di desiderio. Due stelle nere offuscate di passione.
Rabbrividii.
«È stata una tua idea uscire» lo accusai.
Mi accarezzò una guancia. Sorrideva. «Voglio fare le cose per bene con te.»
Sentii gli occhi pizzicare e lo abbracciai forte, nascondendo il viso contro il suo collo.
«Fammi scendere» gli sussurrai con un filo di voce. Lui mi sollevò e mi fece appoggiare i piedi a terra. La mia posizione cambiò, ora avevo la guancia affondata nel suo petto, le sue braccia mi avvolgevano.
Mi faceva sentire piccola e protetta.
«L’unico modo per rendermi felice è fare esattamente ciò che desideri.»
Sentii il suo torace espandersi per un sospiro profondo, con le dita giocava con i miei capelli all’altezza della nuca.
«Non voglio sbagliare.»
Mi scostai e cercai i suoi occhi. Le sue parole erano quanto più vicino a una dichiarazione d’impegno potessi ottenere da lui.
Gli interessavo abbastanza da avere il timore di compiere un passo falso.
L’emozione mi serrò la gola.
Accantonai le mie preoccupazioni e mi concentrai su quella frase, me la impressi nel cuore e nella mente con il proposito di ricordarla ogni volta che mi fossi sentita impotente, inadeguata, sbagliata.
«Sei…» non riuscii a terminare la frase. Scossi la testa e sentii le guance riscaldarsi.
«Sono?» mi chiese, costringendomi a guardarlo.
Lo pregai silenziosamente di non insistere. Lui era speciale, era incredibile e mi era così caro… ma era troppo presto per dare voce a parole importanti, alle emozioni che mi gonfiavano il cuore.
Non ero più una ragazzina, ero una donna e non potevo lasciarmi trascinare dall’impulsività, non con Antonio.
Vivevo con l’ansia di spaventarlo, che lui spaventasse me.
«Greta?»
Una voce che non riconobbi chiamò il mio nome.
Antonio si tese e si scostò da me, cambiando posizione. Mi fece scudo con il suo corpo, costringendomi ad arretrare di qualche passo.
Mi sporsi oltre il suo braccio e scorsi due amici che non vedevo da tempo.
Virginia e Giuseppe. Avevamo frequentato il liceo insieme.
Superai Antonio e sorrisi nella loro direzione, ma la mia mascella era contratta e avevo i nervi a fior di pelle. Quella reazione mi aveva colta alla sprovvista. Gli strinsi una mano per rassicurarlo. Da quale pericolo aveva pensato di dovermi proteggere?
Avevo la sensazione di aver raschiato appena la superficie dei suoi problemi.
«Ciao ragazzi!» salutai, quando si avvicinarono. Forzai un tono allegro e dovetti essere convincente, perché Virginia non si accorse del nervosismo di Antonio, che era rigido e aveva gli occhi stretti.
«Greta! Come stai?» trillò la mia amica.
La abbracciai, cercando di infondere un po’ di partecipazione in quel saluto, ma tutti i miei sensi erano in allerta e si accordavano all’umore di Antonio, cauto e vigile.
Salutai anche Giuseppe con un bacio sulla guancia e subito mi affrettai a presentare loro Antonio.
Lui ricambiò le strette di mano, ma non disse una parola, li guardava solamente, come se fossero un rompicapo da risolvere.
«È da tanto che non ti si vede in giro» mi accusò Virginia. In un’altra occasione il suo sorriso travolgente mi avrebbe messo allegria. Era la classica persona che riusciva a farti sentire l’amica migliore del mondo anche se non rispondevi alle sue chiamate da mesi.
«Il lavoro mi impegna molto» mi giustificai, stringendomi nelle spalle.
La verità? Da quando lavoravo a Scampia conducevo una vita molto ritirata. In settimana accumulavo molta tensione e spesso non avevo l’energia mentale per uscire con gli amici. Lo facevo, certo, ma non con l’assiduità, e spesso non con il piacere, di un tempo.
I miei amici mi sembravano così superficiali, ora.
Lo ero stata anche io.
«Tuo padre mi ha detto che per te è dura lavorare a Scampia. Un posto dimenticato da Dio, immagino» intervenne Giuseppe. Lui e mio padre lavoravano nello stesso reparto al Cardarelli.
Strinsi i denti e piegai le labbra in un sorriso tanto ampio quanto forzato.
Non ebbi nemmeno il coraggio di guardare Antonio.
Era accanto a me ma non mi toccava più.
«Mio padre è apprensivo. È un lavoro molto appagante» risposi, diplomatica.
«Certo» annuì Virginia, gli occhi scuri caldi e comprensivi. «Quei poveri bambini sono proprio allo sbando, vero?»
Volevo sprofondare.
Come potevo salutarli senza offenderli?
«Non bisogna generalizzare» la ammonii, cercando di mantenere un tono leggero. Chiunque dotato di un po’ di sensibilità avrebbe capito che era meglio non continuare a insistere sull’argomento, ma Virginia e Giuseppe…
«Stavamo andando a prendere un aperitivo al Borgo Marinari, vi unite a noi?» chiese Giuseppe.
«Oh, noi…»
«Va bene» mi interruppe Antonio, prima che potessi rifiutare l’invito.
Isolotto di Megaride su cui sorge il Castel dell'Ovo,
circondato dal Borgo Marinari e dal Porticciolo.
I miei occhi scattarono su di lui, il cuore mi martellava nel petto. Cosa diavolo stava facendo?
Annuii, anche se ero confusa.
Seguimmo i ragazzi sull’isolotto di Megaride, ma c’era una nuova distanza tra di noi e non mi sentivo a mio agio a tenergli la mano.
Stavo ancora cercando di comprendere il suo comportamento.
Lui, al solito, non mi aiutava. Camminava in silenzio e sembrava pensieroso.
Non avevo idea di cosa gli passasse per la testa, ma non credevo fosse nulla di buono.
Era arduo decifrarlo e questo mi provocava inquietudine.
Da quando ero così insicura?
No, non era la domanda giusta. Non ero io a essere insicura, era la situazione a essere nebulosa, e questo perché mai, nemmeno per un secondo, Antonio era stato limpido riguardo alle sue intenzioni.
Avevo bisogno che mi parlasse, ma ancora una volta aveva preferito lasciarmi nell’ignoranza, farmi macerare nel dubbio.
Ci accomodammo ai tavolini di un localino nel borgo che circondava il Castel dell’Ovo.
Ordinammo un aperitivo e io e i miei ex compagni di classe parlammo del più e del meno, di ciò che conoscevamo e condividevamo.
Avrei voluto coinvolgere anche Antonio nelle nostre conversazioni ma lui non dava segno di volervi partecipare, nonostante i miei tentativi, e smisi di preoccuparmene.
Era un uomo, non un bambino da pungolare e sostenere a ogni sospiro.
Isolotto di Megaride, vista notturna.
«Di cosa ti occupi?» gli chiese Giuseppe, quando le nostre chiacchiere si spostarono sul lavoro.
Mantenni la mia espressione neutra e mi imposi di non rispondere per Antonio.
«Sono un meccanico» lo informò Antonio, in quel suo modo particolare di emettere suoni a labbra chiuse.
«Macchine?» domandò il ragazzo, che aveva una passione per i motori. Un interesse molto più borghese, che metteva in pratica collezionando i volumi del Quattroruote. Dubitavo si fosse mai sporcato le mani.
«Aerei» fu la laconica replica di Antonio, che sembrava così annoiato da non degnare di uno sguardo Giuseppe.
Quell’atteggiamento arrogante mi infastidiva, ma non potevo dare voce al mio disappunto.
Non era ancora il momento.
Perché aveva accettato l’invito se fremeva come un animale in gabbia?
«Come vi siete incontrati?» volle sapere Virginia. Gli occhi le brillavano di interesse e malizia. Antonio era bello, e benché la ragazza fosse fidanzata con Giuseppe dal secondo ginnasio, sapeva apprezzare un cavallo di razza.
«Suo fratello è uno dei bambini di cui mi occupo» risposi, ignorando la sorpresa sui volti dei miei amici e anche su quella di Antonio. Fui fiera che dal mio tono non trasparisse nemmeno una traccia di sfida. Il mio intento non era sconvolgerli, ma solo affermare la verità. E non c’era nulla di cui vergognarsi.
Ero convinta delle mie scelte. La passione non bastava a spingermi verso una relazione complicata, era la mia testa che analizzava le variabili e approdava a delle decisioni.
Mi assicurai che il messaggio fosse chiaro.
«Come si chiama?» chiese Virginia, riprendendosi subito. Approvai che sorridesse e sembrasse naturale. Forse ero stata troppo dura nel giudicarla.
«Gabriele» sussurrò Antonio.
Fissava il bicchiere di Aperol e sembrava confuso, turbato.
Una fitta al petto mi strappò un ansito.
Non sopportavo i dubbi che mi affollavano la testa. Non capivo se intendesse le mie parole per ciò che erano o se ne distorceva il significato, inquinando di sospetti le mie affermazioni.
Stavo impazzendo e vederlo così incerto mi spezzava il cuore.
«È un bambino davvero speciale» mormorai, la gola stretta per la commozione.
Per fortuna, Giuseppe cambiò discorso.
Ci trattenemmo ancora una mezz’ora con loro, poi ci separammo. Avevo bisogno di stare da sola con Antonio, di fargli le domande che avevo rimandato, di esporgli le mie perplessità su come stavamo gestendo la nostra relazione.
«Si è fatto tardi» disse Antonio, appena ci fummo allontanati dai ragazzi.
Chiusi gli occhi e contai fino a dieci.
Non bastò.
Ripresi il conto sperando di calmarmi abbastanza da indurre i polmoni a contrarsi e dilatarsi. Ero in apnea.
Non erano nemmeno le dieci di sera. Gabriele dormiva fuori.
Non c’era nulla che potesse impedirgli di stare con me, tranne che… non voleva.
«Si è fatto tardi» ripetei, le lettere che incespicavano le une sulle altre. Il mio respiro era così instabile che sembrava stessi singhiozzando.
Antonio si incamminò verso la macchina. Mi accordai al suo passo. Eravamo l’uno accanto all’altro ma lontani anni luce.
Sapevo cosa stava succedendo.
Lo leggevo nella sua chiusura, nel modo in cui sfuggiva al mio sguardo.
Quando ci sedemmo in macchina, la tensione era così palpabile che lui ebbe difficoltà a inserire la chiave d’accensione nel quadro.
Ebbe un gesto di impazienza e sbatté un palmo sul clacson, che si produsse in un rumore sgradevole.
Sussultai e con entrambe le mani mi afferrai al sedile.
Avevo bisogno di un’àncora.
Antonio riuscì a mettere in moto e guidò in silenzio.
Non accese nemmeno la radio.
La differenza con il viaggio di qualche ora prima mi provocò un dolore intenso all’altezza del petto. Era violento al punto da rendermi inerme.
Non avevamo condiviso niente eppure…
«Buonanotte.»
Eravamo arrivati sotto il palazzo in cui c’era il mio appartamento, quello in cui vivevo da sola perché a ventotto anni avvertivo il bisogno di indipendenza, quello in cui speravo sarei rientrata con lui.
Antonio non spense nemmeno il motore.
Non ebbi il coraggio di guardarlo.
Il suo voltafaccia mi aveva sconvolta.
Addolorata.
Mi aveva distrutto.
«A…» La voce mi si spense. Non riuscivo a continuare. Chiusi la bocca, la gola bloccata dal tormento.
Era finita.
Non sapevo perché, non avevo il coraggio di chiedere spiegazioni, dubitavo che ne avrei ottenute, ma ero certa che per Antonio la breve parentesi con me fosse conclusa.
Annuii con consapevolezza e aprii la portiera. Nel momento in cui fossi uscita dall’abitacolo, sarebbe cambiato tutto.
Mi allontanai dalla vettura come in trance. Arrivai al portone e scavai nella borsa in cerca delle chiavi.
Mi tremavano le mani.
Non cedetti all’impulso di voltarmi. Sapevo che era ancora lì, avrebbe aspettato che entrassi in casa.
Lo odiai. Profondamente. Con tutta me stessa.
Non la volevo la sua premura.
Mi aveva lasciata senza una parola.
Non volevo nulla da lui.
Il mazzo di chiavi mi cadde mentre cercavo quella giusta.
Mi accovacciai e lo raccolsi, poi aprii il portone solo per vederlo andar via. Non sopportavo l’idea che fosse così vicino.
Entrai nell’androne buio e mi fermai oltre la soglia, appoggiando le spalle al battente.
Chiusi gli occhi e le gambe mi cedettero. Scivolai lentamente a terra.
Cosa gli era successo?
Un attimo prima aveva dichiarato di voler fare le cose per bene con me, di non voler sbagliare, e quello dopo diventava cupo e nervoso solo perché avevamo incontrato i miei amici?
La realizzazione, quando arrivò, mi fece conficcare le unghie nei palmi.
Il mio petto iniziò a sollevarsi con rapidità, i respiri brevi mi annebbiarono la vista. Ma non fu un problema. Era già oscurata dalla rabbia.
Da una furia cieca e devastatrice.
Mi alzai in fretta e raggiunsi il garage per prendere la mia Ypsilon.
Vele di Scampia, visione notturna.
Durante il tragitto verso Scampia cercai in ogni modo di recuperare il controllo. Non ci riuscii.
Ero così sconvolta da non temere per nulla, nemmeno per la mia incolumità.
Raggiunsi le Vele e parcheggiai alla luce arancione di un lampione.
Credevo non ci fosse nessuno in strada a quell’ora, ma a cento metri da me si era formata una fila di persone. Drogati.
Mi accertai che la macchina di Antonio fosse parcheggiata nei paraggi e, quando ne ebbi la conferma, mi addentrai nel complesso.
Salii le scale, nelle orecchie l’unico rumore del mio battito, accelerato al punto che mi faceva male il petto.
I cancelli tra i settori erano aperti. Me l’aspettavo.
Con la piazza di spaccio a uno sputo di distanza non si dovevano compromettere le vie di fuga.
Bussai alla porta di Antonio con il pugno.
Ero stata avventata a precipitarmi lì, ma ero delusa e non avevo avuto tempo di riflettere.
Avevo pensato che i pregiudizi di Antonio fossero stati spazzati via dalle mie rassicurazioni, ero convinta che avesse compreso. Ma non era stato così.
Gli era bastato confrontarsi con altre persone, con i miei amici, per mettere in discussione il nostro fragile legame.
Per dubitare di me.
Quando aprì la porta, i suoi occhi si sbarrarono.
«Che cazzo ci fai qui?» ringhiò, la sorpresa che lasciava il posto all’irritazione.
Be’, avevo scoperto che la rabbia agiva su di me in modo miracoloso. In quel momento non avevo paura di nulla. Non avevo paura di lui.
Mi afferrò per un polso e mi tirò dentro casa.
Non fu tenero, mi fece male.
La sua presa mi avrebbe di sicuro lasciato dei lividi.
Mi allontanai da lui come se mi fossi bruciata. Non volevo che mi toccasse.
Raggiunsi la cucina e mi premurai di accendere la luce sbattendo il palmo sull’interruttore.
«Sai, mentre venivo qui ho pensato molto. Mi sono chiesta se meritavi questo confronto. Ma non mi interessa. Lo merito io»
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Antonio era un fascio di nervi, la T-shirt era tesa sui suoi muscoli e le vene delle braccia erano gonfie. Stava stringendo i pugni.
«È inutile» affermò. La sua voce assomigliava più al ruggito di un leone che a verso umano.
«Non lo stabilisci tu» protestai. «E smettila di guardami come se fossi un’amante scaricata e fuori di testa. Non siamo stati insieme nemmeno il tempo necessario perché lo diventassi.»
Abbassò gli occhi, incapace di sostenere la determinazione nei miei. Un muscolo gli vibrava sulla guancia.
«Non dovevi venire.»
«Certo» sbuffai con una risata amara. «Avrei dovuto accettare ancora una volta il tuo silenzio e far finta di nulla. Ma non te lo permetterò. No, finirà come dico io
«Ti avrei chiamata» mi comunicò. Non avevo dubbi che l’avrebbe fatto. Era uno stronzo, non un vigliacco. Si sarebbe preso il tempo per meditare e collezionare motivazioni a sostegno della sua decisione.
Non gliel’avrei concesso.
Mi imposi di restare calma, anche se avrei voluto urlare. Non era quello il modo giusto per chiarirgli il mio punto di vista.
Non era il mio dolore che doveva registrare, ma la mia fermezza.
Mi voltò le spalle e afferrò un mazzo di chiavi appoggiato sul tavolo.
«Ti accompagno a casa.»
Scoppiai a ridere, anche se non c’era gioia nella mia voce. Incredulità, sì, sorpresa e… amarezza.
«Smettila con questo atteggiamento da supereroe. Non sono Gabriele. Ti dirò ciò che devo e poi tornerò a casa così come sono venuta. Da so-la» scandii.
Il riferimento al fratello lo fece scattare. Mi si avvicinò minaccioso, ma non mi toccò.
«Cazzo!» ringhiò, la frustrazione stampata sul viso.
Bene. Volevo che perdesse la calma. Forse allora mi avrebbe parlato, sarebbe riuscito a tirare fuori ciò che lo stava avvelenando. Ciò che l’aveva indotto a spezzarmi. A farsi del male.
«Gre…» La voce gli mancò. Lo vidi respirare a fondo. Lo stavo torturando costringendolo a fronteggiare una situazione nuova per lui.
Era così solo che dubitavo riuscisse a sostenere una discussione.
Le sue parole erano la legge nel suo mondo fatto di due persone. Ma non lo erano nel mio.
«Non posso darti ciò che vuoi.»
Spalancai gli occhi e provai ad articolare una frase senza mettermi a gridare, ma non ne fui capace. «Tu non mi hai mai chiesto cosa voglio!» iniziai. Lo vidi arretrare di un passo, colpito dalle mie parole.
«Tu non hai nemmeno provato a capire cosa mi spingesse verso di te. Hai dato per scontato che volessi qualcosa di diverso, di esotico» lo accusai. Ripresi fiato, pronta a continuare ma lui iniziò a scuotere la testa.
Non voleva ascoltarmi.
«Mi vuoi, ma non sai chi sono» affermò, come se spiegasse tutto. E invece non chiariva un bel nulla! Non sapevo chi era perché si era rifiutato di farsi conoscere.
«Non è colpa mia se…»
«Non hai pensato a cosa significa stare con me. La famiglia da cui provengo…»
Ancora una volta non riuscì a terminare la frase a causa di quel maledetto orgoglio che gli imponeva di non mostrare le sue insicurezze, le sue difficoltà.
Mi tremò il mento. La pena che provavo per lui mi stava mettendo in ginocchio. Il suo senso di inadeguatezza si abbatteva su di me a ondate e la mia gola era stretta al punto che dubitavo di riuscire anche solo a respirare.
Avrei voluto abbracciarlo, rassicurarlo.
Ma c’era di più dietro le sue parole.
«Mi ritieni così superficiale?» gli domandai, la voce sottile, rotta dalle lacrime che mi rifiutavo di versare. «Hai così poca stima di me?»
Abbassai lo sguardo, gli voltai le spalle e appoggiai entrambe le mani al piano cottura.
Mi era insopportabile guardarlo.
Ricacciai indietro il pianto, sedai la rabbia. Lasciai lo spazio alla desolazione, al senso di fallimento.
Avevo provato a combattere la sua mancanza di fiducia, avrei continuato a farlo finché non avessi spazzato via ogni sospetto, ogni riserva. Ma avevo bisogno della sua volontà di superare questi ostacoli. Aveva mollato ancor prima di provarci.
«Vuoi sapere a cosa ho pensato in queste settimane? No, mesi. Sono stati mesi, Antonio» gli dissi. Una strana calma si era impadronita di me.
Mi sentivo svuotata.
Lo fronteggiai di nuovo. L’avrei guardato negli occhi, non gli avrei lasciato scampo.
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«Vogliamo restare in superficie? Sei un operaio con un fratello a carico. Gabriele è un bambino difficile inserito in un programma di recupero. Vivi in un luogo fuori dalla grazia di Dio, dove ogni sera devi barricarti in casa a causa dei drogati che ti ciondolano sotto al balcone» elencai.
Antonio non sbatteva le palpebre. I suoi occhi erano fissi nei miei, privi di espressione. Respirava?, mi chiesi. Forse no.
Attendeva.
«Tuo padre è un camorrista, un pesce piccolo e nemmeno intelligente dal momento che non ha mai fatto carriera. Credo picchiasse tua madre…»
Le narici di Antonio si dilatarono, la furia gli stravolse i lineamenti.
La cicatrice sotto l’occhio sembrava ancora più profonda.
Dentro di me, avevo la certezza che a procurargliela fosse stato suo padre.
Persi la battaglia con me stessa e le lacrime mi rotolarono sulle guance.
«Tua madre…»
«Zitta.»
Rabbrividii per il tono di quell’ordine. Lo stavo spingendo al limite.
«Gabriele non ha conosciuto sua madre» ripresi, imperterrita. «Se la idealizza al punto da picchiare un coetaneo, è perché tu ne conservi il ricordo di una santa.»
Mi asciugai le gote con fastidio. Gli stavo facendo del male e questo stava distruggendo me.
Era necessario.
«La differenza tra me e te è abissale. Tu non hai studiato, io sono laureata. Tu sopravvivi mentre io a ventotto anni posso permettermi di vivere da sola in un appartamento a Posillipo, mantenuto grazie all’aiuto dei miei genitori.»
Gli sbattei in faccia quelle che dovevano essere le sue considerazioni, i motivi per cui mi aveva lasciato sotto casa con un “Buonanotte” che suonava come un addio. Virginia e Giuseppe gli avevano solo rammentato ciò su cui aveva sempre speculato.
Seppi di aver fatto centro quando il dolore gli dipinse sul viso una maschera di tormento. Lo dissimulò subito.
La vita gli aveva insegnato ad affrontare tutto.
Ringraziai che avesse una corazza tanto spessa da cui trarre la forza per non arrendersi, anche se non lo proteggeva dalla sofferenza.
I dispiaceri avevano scavato in lui un inferno di rabbia e cautela di cui si abbeveravano i suoi pregiudizi.
«Vedi? Avevo pensato a tutto» dissi picchiettandomi la tempia con un dito. «Eppure non erano la tua vita e la tua famiglia a preoccuparmi. Sapevo che i tuoi silenzi sarebbero stati un problema, che le nostre differenze culturali avrebbero potuto allontanarci. Però ero determinata a costruire un ponte» confessai, dando voce alle mie speranze. «Credevo che se tra noi ci fosse stato rispetto, nessuna discussione sarebbe stata sterile. Avremmo parlato fino a quando non fossimo giunti a un compromesso, e nel frattempo ci saremmo arricchiti. Non mi spaventava provarci, anche se sarebbe stato faticoso. Avrei lottato per noi, ma tu non c’hai creduto abbastanza.»
Mi scostai dal piano. Lo guardai per bene. Era così dolorosamente bello, anche nella fissità dell’indifferenza che era risoluto a mostrarmi.
Pensai che avrei dato qualsiasi cosa pur di vederlo sorridere come qualche ora prima, con passione e calore.
Non ce ne sarebbe più stata occasione.
«Bene. Non ho nient’altro da dire» conclusi, amareggiata, sulla lingua il sapore delle lacrime e della sconfitta.
«Ora è davvero… finita.»
Feci un passo avanti per andarmene.
Mi accorsi troppo tardi che la luce nei suoi occhi era cambiata.
Un brivido di allarme mi percorse la schiena.

Benvenuti a Scampia. Basta crederci e trovi un mare di bene a Scampia.




 

Siamo arrivati alla fine di questo nuovo episodio di Sangue Amaro e, anche se oggi non avrò conquistato la vostra simpatia, spero vi sia piaciuto.
Vi avevo già segnalato che ogni puntata avrebbe affrontato un tema diverso, oggi è stato per me fondamentale sviscerare quello delle differenze sociali e culturali.
Lo so, ci piace sognare che la ragazza che viene da un imprecisato paesotto di campagna riesca a conquistare un istruito milionario, di libri simili ne abbiamo letti centinaia e continueremo a leggerli, ma non è così semplice stabilire una relazione e l'amore non basta: ci vuole dialogo.
Ricordo che lessi un articolo illuminante di una eccellente autrice italiana la quale sosteneva che l'eroe doveva essere sempre socialmente ed economicamente superiore alla sua donna, altrimenti alle lettrici non sarebbe piaciuto, non avrebbero visto in lui un principe azzurro. Sono d'accordo, ma Sangue Amaro non è un romanzo rosa che corrisponde a delle necessità di mercato, è uno spaccato di vita quotidiana e come tale si porta dietro difficoltà REALI. Non vi ho mai nascosto che è la storia di un amore puro, incorrotto e incorruttibile, ma se vi aspettate una narrazione più  infiocchettata allora questo progetto non fa per voi.
Non voglio fare sconti ad Antonio e Greta, ciò che è accaduto e accadrà deve essere coerente con la loro caratterizzazione e il loro background. Se saranno capaci di trovare dei compromessi sta a voi scoprirlo continuando a leggere.
Vi ringrazio ancora una volta per la costanza e l'affetto con cui mi state seguendo. Leggo le vostre opinioni e ogni volta mi sembra un miracolo. Voi mi scaldate il cuore!
Spero di leggere ancora i vostri COMMENTI e di ritrovarvi ancora qui la prossima settimana.
Vi abbraccio.
Angela

Ps. Come nelle scorse settimane vi lascio delle note, seguendole troverete degli approfondimenti su ciò di cui parlo. 
Troverete anche la Playlist con le canzoni dei 30 Seconds to Mars che hanno accompagnato la stesura di questo episodio.


 


NOTE:



* Taralli 'nzogna e pepe (sugna e pepe), taralli intrecciati preparati con sugna (strutto), mandorle e pepe macinato. Tradizionalmente si accompagnano a una birra fredda, la Peroni (negli ultimi anni sostituita dalla Corona extra), durante una passeggiata sul lungomare di via Caracciolo.
Ricetta di Raffaele Pignataro ---> http://tinyurl.com/zyevqds
 
** Isolotto di Megaride (greco: Megaris), isolotto di tufo propaggine naturale del monte Echia, che era unito alla terraferma da un sottile istmo di roccia.
Oggi è collegata alla terra ferma con dei riempimenti a mare, ma in origine Megaride era distante pochi metri dalla linea di costa. Secondo un antico mito, già noto in Grecia orientale, ancora prima della fondazione di Neapolis, il corpo della sirena Partenope fu sepolto a Megaride, essendo stata trasportata dal mare in quella zona dopo essersi lasciata morire in seguito al rifiuto di Ulisse.

** Castel dell’Ovo (latino: castrum Ovi), è il castello più antico della città di Napoli. Si trova tra i quartieri di San Ferdinando e Chiaia, di fronte a via Partenope. Originariamente era la dependance della villa di Licinio Lucullo. Successivamente vi si insediarono i monaci basiliani. Fu poi abitato da Ruggero, re dei Normanni. In seguito a eventi che hanno in parte distrutto l'originario aspetto normanno e grazie ai successivi lavori di ricostruzione avvenuti durante il periodo angioino e aragonese, la linea architettonica del castello mutò drasticamente fino a giungere allo stato in cui si presenta oggi. Il suo nome deriva da un'antica leggenda secondo la quale il poeta latino Virgilio nascose nelle segrete dell'edificio un uovo. La sua rottura avrebbe provocato non solo il crollo del castello, ma anche una serie di rovinose catastrofi alla città di Napoli.

*** Borgo Marinari, ubicato sull'Isolotto di Megaride, a ridosso del Castel dell'Ovo, nel quartiere San Ferdinando. Esso è unito alla terraferma tramite un istmo artificiale collegato col Borgo Santa Lucia. Oltre al castello, il borgo consta di poche abitazioni: sei palazzi, tutti a due piani, e al centro una piazzetta. Data la vocazione turistica, le attività commerciali sono per lo più bar e ristoranti, ma non mancano negozi e officine per la nautica.

**** Vele di Scampia, complesso di abitazioni a uso residenziali a forma di vele romane. Tra il 1997 e il 2003 sono state abbattute tre delle sette Vele. Si presentano in stato di degrado.

***** Piazza di spaccio, palazzi, androni, sottoscala utilizzati per la vendita di droga, in cui i portoni vengono sostituiti con blindati senza chiave bloccati all'interno con staffe di ferro. 
PLAYLIST PUNTATA #3




BOOKTRAILER 


17 commenti:

  1. Bello, bello bello, lei è un mito di ragazza. E adesso non rimane che sperare che lui non sia così vigliacco e riesca a superare le sue paure e ciò che gli suggerisce l'orgoglio per rimettere a posto le cose.

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  2. Ah...odio i silenzi, i fraintendimenti e la mancanza di discussione, ma qui li vedo propedeutica per il continuo della storia e per il carattere dei personaggi.
    Aspetto con ansia il seguito e spero tanto di leggere ancora tanti capitoli, non credo che Angela faccia finire tutto a tarallucci e vino, vero?
    Le foto rispecchiano la visualizzazione dei personaggi che mi ero fatta nella mente. Lui è un gran figo!

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  3. Non puoi lasciarmi così??? Sarà un'agonia fino a sabato 😭😭😭

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  4. Sappilo che ti sto odiando. Bello bello bello. Mi è scesa la lacrimuccia. Non puoi sospendere nel più bello. Con la tua scrittura mi arrivi dritta al cuore.

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  5. Che posso dirti....per quel che mi riguarda non sono una persona superficiale e nemmeno una lettrice superficiale! quindi il classico principe azzurro mi inorridisce!!! Greta ed Antonio sono più che mai tangibili in questa puntata e lei è stata grande. No! Tu sei stata grande...sei riuscita a rendere la frustrazione di entrambi reale dalla prima all'ultima parola Complimenti attendo con ansia la prossima puntata. Grazie per questi racconti gratuiti che ci consentono di conoscervi ed apprezzarvi come autrici e di scegliervi nell'infinito panorama degli scrittori. Angela C.

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  6. Bellissimo aspetto con ansia il seguito...in questa puntata Antonio con i suoi silenzi ha mostrato la paura che ha a lasciarsi andare ..alla speranza che Greta voglia davvero lui !!! Greta è stata fantastica ad affrontarlo così a muso duro senza risparmiargli niente...
    Bravissima Angela!!!

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  7. Molto bello brava Angela !!! Grazie x questo racconto così reale , e proprio vero in una relazione l'amore nn basta ci vuole dialogo ...Greta mi piace xche è una ragazza forte
    A sabato Angela <3

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  8. Molto bello brava Angela !!! Grazie x questo racconto così reale , e proprio vero in una relazione l'amore nn basta ci vuole dialogo ...Greta mi piace xche è una ragazza forte
    A sabato Angela <3

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  9. no ma tu sei pazza a finire così questo capitolo!!una sola parola:bello,bello, bello!!!

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  10. Sempre più intrigante, Antonio e Greta, personaggi che rispecchiano molto la dura realtà di situazioni difficili, come quella che stai narrando. A sabato prossimo, per me semplicemente bellissimo. Grazie.

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  11. Ma proprio sul più bello... noooo!!

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  12. Sei fantastica,aspetto sempre il fine settimana x leggerti!!!

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  13. Io sono della generazione del Peroncino. Mi hai riportato alla memoria quando anche sedevo sul parapetto, con il mio ragazzo in piedi fra le mie gambe, con i nostri taralli cavere, e lui distrattanente mi "accarezzava". Grazie.

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  14. E adessooooo... Sempre più interessante

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  15. cavoli non voglio espormi perchè voglio prima leggerlo tutto ma mi sto davvero appassionando !

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