PUNTATA #3
Frequentare
Antonio Russo richiedeva grande pazienza e spirito di adattamento.
Quando mi
baciava, tutto l'universo si accordava su un’unica, magnifica sinfonia. Ma non
potevamo sempre baciarci, e parlare rappresentava ancora un problema.
Erano
passati solo quattro giorni da quando avevamo definito la nostra relazione. Sempre
che toglierci le mani di dosso appena in tempo per non farci scoprire da
Gabriele potesse indicare un impegno stabile.
Da allora
non avevamo avuto un momento per stare insieme. Ogni pomeriggio veniva a
prendere me e Gabriele a scuola, riportava il bambino a casa e poi mi
accompagnava alla stazione della metropolitana.
Se provavo a
chiedergli della sua giornata, mi zittiva con un bacio mozzafiato e mi lasciava
andare, arruffata e stravolta, a prendere il treno.
Non avevo
avuto molte relazioni, ma ero abbastanza onesta da sapere che in quel modo non
sarebbe durata a lungo.
Lo conoscevo
poco, quanto bastava per farmi battere il cuore quando lo guardavo.
Volevo
sapere di più.
Volevo sapere
tutto.
Lungomare di Napoli. Foto panoramica scattata dalla Chiesa di Sant'Antonio a Posillipo. |
Ora
camminavamo mano nella mano su via Caracciolo e il lungomare non mi era mai parso
così bello.
Gli ultimi
raggi di sole donavano al cielo una calda tonalità
rosata, il Castel dell'Ovo proiettava la sua ombra sul mare cupo e immobile.
Si sentiva
nell'aria un odore salmastro, unito a una traccia di frittura di pesce e al
profumo più intenso della legna che ardeva nei forni delle pizzerie.
Era ormai un
anno che il comune aveva liberato il lungomare dal traffico rendendolo una zona
pedonale, e io e Antonio passeggiavamo al centro della strada, sullo sfondo il
profilo del Vesuvio, bellissimo e minaccioso, intorno a noi altre coppie e
qualche artista che già si stava posizionando per suonare qualche ballata al violino.
Per una
volta il silenzio non mi dispiaceva, perché mi parlava, mi sussurrava la bellezza
della mia città, la pace… l'amore.
Lo
condividevo con Antonio.
«Gabriele
poteva venire con noi. Non mi sarebbe dispiaciuto» gli dissi, pensando che si
sarebbe divertito un mondo su un risciò.
La mano di
Antonio si chiuse intorno alla mia con più forza, solo per un attimo, poi si
rilassò.
Lungomare di Via Caracciolo e via Partenope. |
Respirai
lentamente e mi presi il tempo per riflettere bene su come rispondergli. Non
era stata mia intenzione mettere in dubbio la sua decisione, ma i meccanismi di
difesa erano così radicati in lui che ogni conversazione poteva trasformarsi in
un campo minato.
«So che ti
fidi di lei» ripetei, per fargli capire che non lo giudicavo. Non avevano una
famiglia a cui appoggiarsi, non era strano che il nucleo relazionale si
estendesse ai vicini di casa.
«È una brava
persona.»
Lo so!
«Suo figlio
ha la stessa età di Gabriele, vero?» cercai di cambiare argomento. Sapevo di
sbagliare, dovevo affrontarlo, non assecondare la sua diffidenza. Ma una parte
di me, quella più egoista, voleva godersi quella serata, quello scampolo di
normalità.
«Sì.»
Un
monosillabo, tutto ciò che riusciva a offrirmi quando non inventavo un modo per
estorcergli qualche parola in più.
Deglutii un
groppo di dispiacere e ansietà.
Volevo che
le cose tra di noi andassero bene, lo volevo così tanto da non riuscire a fare
la cosa giusta, a pronunciare le parole adatte.
Chioschetto sul lungomare Via Partenope. |
Annuì e ci
dirigemmo verso il rivenditore. Antonio prese il biscotto salato per me e due
birre. Mi aiutò a sedermi sulla balaustra che dava sul mare e vi si appoggiò
con entrambe le braccia, la bottiglia di Corona tra le mani.
Osservai il
suo profilo dall’alto e il cuore mi si strinse in una morsa.
Era così
inavvicinabile, eppure era mio.
Lo era
davvero?
«Ne vuoi un
po’?»
Spezzai il
silenzio allungandogli il tarallo. Lui si raddrizzò e arretrò per guardarmi,
l’espressione indecifrabile.
Poi sorrise.
Allungò una
mano e con il pollice mi accarezzò un angolo della bocca.
«Briciole»
mi informò.
Arrossii ma
non permisi all’imbarazzo di fermarmi. Gli afferrai il polso e lo attirai più
vicino a me. Divaricai leggermente le gambe e lui si sistemò al centro. Appoggiò
la bottiglia accanto a me, sul parapetto in pietra, e finalmente sentii i suoi
palmi sulle mie cosce.
Erano
freddi.
«Apri la
bocca» ordinai. Obbedì e schiuse le labbra. Gli offrii un morso del mio tarallo
e dovetti resistere dal gemere quando la sua bocca si chiuse sulle mie dita in
un bacio.
Era il
momento più eccitante e intimo che avessi mai vissuto.
Birra Corona extra e taralli nzogn e pepe. Nelle note la ricetta. |
Antonio riusciva
a riempire ogni gesto di un inconsapevole erotismo. C’era in lui una sorta di
sensuale selvatichezza nel modo in cui chiudeva gli occhi, nella sua postura vigile
eppure rilassata, nell’espressione remota, superiore.
Aveva la
grazia di un predatore, una carnalità animale e sfacciata cui non sapevo
resistere.
Ritirai la
mano e appoggiai il tarallo accanto a me. Non sarei riuscita a ingoiare più un
solo boccone.
Sospirai,
indebolita dal desiderio al punto da far fatica a tenere la schiena eretta.
«Non è corretto» esordii.
«Cosa?» mi
chiese Antonio, e c’era così tanta arroganza nei suoi occhi che non potevo
credere alla sua curiosità.
Oh, al diavolo!
«Sto per
baciarti» lo avvisai, poi gli presi il viso tra le mani e catturai quella bocca
che mi faceva impazzire.
Sentii i
suoi palmi infilarsi sotto il giacchetto di pelle e risalirmi lentamente lungo
la schiena. Non sotto la maglietta.
Gemetti con
disappunto ma, quando le nostre lingue si intrecciarono, ogni pensiero fu
soffiato via dalla tempesta di sensazioni che Antonio sapeva scatenare in me.
Ci staccammo
e notai i suoi occhi brillare di desiderio. Due stelle nere offuscate di
passione.
Rabbrividii.
«È stata una
tua idea uscire» lo accusai.
Mi accarezzò
una guancia. Sorrideva. «Voglio fare le cose per bene con te.»
Sentii gli
occhi pizzicare e lo abbracciai forte, nascondendo il viso contro il suo collo.
«Fammi
scendere» gli sussurrai con un filo di voce. Lui mi sollevò e mi fece
appoggiare i piedi a terra. La mia posizione cambiò, ora avevo la guancia
affondata nel suo petto, le sue braccia mi avvolgevano.
Mi faceva
sentire piccola e protetta.
«L’unico
modo per rendermi felice è fare esattamente ciò che desideri.»
Sentii il suo torace espandersi per un sospiro
profondo, con le dita giocava con i miei capelli all’altezza della nuca.
«Non voglio
sbagliare.»
Mi scostai e
cercai i suoi occhi. Le sue parole erano quanto più vicino a una dichiarazione
d’impegno potessi ottenere da lui.
Gli
interessavo abbastanza da avere il timore di compiere un passo falso.
L’emozione
mi serrò la gola.
Accantonai
le mie preoccupazioni e mi concentrai su quella frase, me la impressi nel cuore
e nella mente con il proposito di ricordarla ogni volta che mi fossi sentita
impotente, inadeguata, sbagliata.
«Sei…» non
riuscii a terminare la frase. Scossi la testa e sentii le guance riscaldarsi.
«Sono?» mi
chiese, costringendomi a guardarlo.
Lo pregai
silenziosamente di non insistere. Lui era speciale, era incredibile e mi era
così caro… ma era troppo presto per dare voce a parole importanti, alle
emozioni che mi gonfiavano il cuore.
Non ero più
una ragazzina, ero una donna e non potevo lasciarmi trascinare dall’impulsività,
non con Antonio.
Vivevo con l’ansia di spaventarlo, che lui spaventasse me.
«Greta?»
Una voce che
non riconobbi chiamò il mio nome.
Antonio si
tese e si scostò da me, cambiando posizione. Mi fece scudo con il suo corpo,
costringendomi ad arretrare di qualche passo.
Mi sporsi
oltre il suo braccio e scorsi due amici che non vedevo da tempo.
Virginia e
Giuseppe. Avevamo frequentato il liceo insieme.
Superai
Antonio e sorrisi nella loro direzione, ma la mia mascella era contratta e avevo i
nervi a fior di pelle. Quella reazione
mi aveva colta alla sprovvista. Gli strinsi una mano per rassicurarlo. Da quale
pericolo aveva pensato di dovermi proteggere?
Avevo la sensazione di aver raschiato appena la
superficie dei suoi problemi.
«Ciao ragazzi!» salutai, quando si avvicinarono. Forzai
un tono allegro e dovetti essere convincente, perché Virginia non si accorse
del nervosismo di Antonio, che era rigido e aveva gli occhi stretti.
«Greta! Come
stai?» trillò la mia amica.
La
abbracciai, cercando di infondere un po’ di partecipazione in quel saluto, ma tutti i miei sensi erano in allerta e
si accordavano all’umore di Antonio, cauto e vigile.
Salutai
anche Giuseppe con un bacio sulla guancia e subito mi affrettai a presentare
loro Antonio.
Lui ricambiò
le strette di mano, ma non disse una parola, li guardava solamente, come se
fossero un rompicapo da risolvere.
«È da tanto
che non ti si vede in giro» mi accusò Virginia. In un’altra occasione il suo
sorriso travolgente mi avrebbe messo allegria. Era la classica persona che
riusciva a farti sentire l’amica migliore del mondo anche se non rispondevi
alle sue chiamate da mesi.
«Il lavoro
mi impegna molto» mi giustificai, stringendomi nelle spalle.
La verità?
Da quando lavoravo a Scampia conducevo una vita molto ritirata. In settimana
accumulavo molta tensione e spesso non avevo l’energia mentale per uscire con
gli amici. Lo facevo, certo, ma non con l’assiduità, e spesso non con il
piacere, di un tempo.
I miei amici
mi sembravano così superficiali, ora.
Lo ero stata
anche io.
«Tuo padre
mi ha detto che per te è dura lavorare a Scampia. Un posto dimenticato da Dio,
immagino» intervenne Giuseppe. Lui e mio padre lavoravano nello stesso reparto
al Cardarelli.
Strinsi i
denti e piegai le labbra in un sorriso tanto ampio quanto forzato.
Non ebbi
nemmeno il coraggio di guardare Antonio.
Era accanto
a me ma non mi toccava più.
«Mio padre è
apprensivo. È un lavoro molto appagante» risposi, diplomatica.
«Certo»
annuì Virginia, gli occhi scuri caldi e comprensivi. «Quei poveri bambini sono
proprio allo sbando, vero?»
Volevo
sprofondare.
Come potevo
salutarli senza offenderli?
«Non bisogna
generalizzare» la ammonii, cercando di mantenere un tono leggero. Chiunque
dotato di un po’ di sensibilità avrebbe capito che era meglio non continuare a
insistere sull’argomento, ma Virginia e Giuseppe…
«Stavamo
andando a prendere un aperitivo al Borgo Marinari, vi unite a noi?» chiese
Giuseppe.
«Oh, noi…»
«Va bene» mi
interruppe Antonio, prima che potessi rifiutare l’invito.
Isolotto di Megaride su cui sorge il Castel dell'Ovo, circondato dal Borgo Marinari e dal Porticciolo. |
I miei occhi
scattarono su di lui, il cuore mi martellava nel petto. Cosa diavolo stava
facendo?
Annuii, anche se ero confusa.
Seguimmo i ragazzi sull’isolotto di Megaride, ma c’era una nuova
distanza tra di noi e non mi sentivo a mio agio a tenergli la mano.
Stavo ancora
cercando di comprendere il suo comportamento.
Lui, al
solito, non mi aiutava. Camminava in silenzio e sembrava pensieroso.
Non avevo
idea di cosa gli passasse per la testa, ma non credevo fosse nulla di buono.
Era arduo decifrarlo e questo mi provocava
inquietudine.
Da quando
ero così insicura?
No, non era
la domanda giusta. Non ero io a essere insicura, era la situazione a essere nebulosa,
e questo perché mai, nemmeno per un secondo, Antonio era stato limpido riguardo alle sue intenzioni.
Avevo
bisogno che mi parlasse, ma ancora una volta aveva preferito lasciarmi
nell’ignoranza, farmi macerare nel dubbio.
Ci
accomodammo ai tavolini di un localino nel borgo che circondava il Castel dell’Ovo.
Ordinammo un
aperitivo e io e i miei ex compagni di classe parlammo del più e del meno, di
ciò che conoscevamo e condividevamo.
Avrei voluto
coinvolgere anche Antonio nelle nostre conversazioni ma lui non dava segno di
volervi partecipare, nonostante i miei tentativi, e smisi di preoccuparmene.
Era un uomo,
non un bambino da pungolare e sostenere a ogni sospiro.
Isolotto di Megaride, vista notturna. |
Mantenni la
mia espressione neutra e mi imposi di non rispondere per Antonio.
«Sono un
meccanico» lo informò Antonio, in quel suo modo particolare di emettere suoni a
labbra chiuse.
«Macchine?» domandò
il ragazzo, che aveva una passione per i motori. Un interesse molto più
borghese, che metteva in pratica collezionando i volumi del Quattroruote.
Dubitavo si fosse mai sporcato le mani.
«Aerei» fu
la laconica replica di Antonio, che sembrava così annoiato da non degnare di
uno sguardo Giuseppe.
Quell’atteggiamento
arrogante mi infastidiva, ma non potevo dare voce al mio disappunto.
Non era
ancora il momento.
Perché aveva accettato l’invito se fremeva come un
animale in gabbia?
«Come vi
siete incontrati?» volle sapere Virginia. Gli occhi le brillavano di interesse
e malizia. Antonio era bello, e benché la ragazza fosse fidanzata con Giuseppe
dal secondo ginnasio, sapeva apprezzare un cavallo di razza.
«Suo
fratello è uno dei bambini di cui mi occupo» risposi, ignorando la sorpresa sui
volti dei miei amici e anche su quella di Antonio. Fui fiera che dal mio tono
non trasparisse nemmeno una traccia di sfida. Il mio intento non era sconvolgerli,
ma solo affermare la verità. E non c’era nulla di cui vergognarsi.
Ero convinta
delle mie scelte. La passione non bastava a spingermi verso una relazione
complicata, era la mia testa che analizzava le variabili e approdava a delle
decisioni.
Mi assicurai
che il messaggio fosse chiaro.
«Come si
chiama?» chiese Virginia, riprendendosi subito. Approvai che sorridesse e
sembrasse naturale. Forse ero stata troppo dura nel giudicarla.
«Gabriele»
sussurrò Antonio.
Fissava il
bicchiere di Aperol e sembrava confuso, turbato.
Una fitta al
petto mi strappò un ansito.
Non
sopportavo i dubbi che mi affollavano la testa. Non capivo se intendesse le mie
parole per ciò che erano o se ne distorceva il significato, inquinando di
sospetti le mie affermazioni.
Stavo
impazzendo e vederlo così incerto mi spezzava il cuore.
«È un
bambino davvero speciale» mormorai, la gola stretta per la commozione.
Per fortuna,
Giuseppe cambiò discorso.
Ci
trattenemmo ancora una mezz’ora con loro, poi ci separammo. Avevo bisogno di
stare da sola con Antonio, di fargli le domande che avevo rimandato, di
esporgli le mie perplessità su come stavamo gestendo la nostra relazione.
«Si è fatto
tardi» disse Antonio, appena ci fummo allontanati dai ragazzi.
Chiusi gli
occhi e contai fino a dieci.
Non bastò.
Ripresi il
conto sperando di calmarmi abbastanza da indurre i polmoni a contrarsi e
dilatarsi. Ero in apnea.
Non erano
nemmeno le dieci di sera. Gabriele dormiva fuori.
Non c’era
nulla che potesse impedirgli di stare con me, tranne che… non voleva.
«Si è fatto
tardi» ripetei, le lettere che incespicavano le une sulle altre. Il mio respiro
era così instabile che sembrava stessi singhiozzando.
Antonio si
incamminò verso la macchina. Mi accordai al suo passo. Eravamo l’uno accanto all’altro
ma lontani anni luce.
Sapevo cosa
stava succedendo.
Lo leggevo
nella sua chiusura, nel modo in cui sfuggiva al mio sguardo.
Quando ci sedemmo
in macchina, la tensione era così palpabile che lui ebbe difficoltà a inserire
la chiave d’accensione nel quadro.
Ebbe un
gesto di impazienza e sbatté un palmo sul clacson, che si produsse in un rumore
sgradevole.
Sussultai e
con entrambe le mani mi afferrai al sedile.
Avevo
bisogno di un’àncora.
Antonio
riuscì a mettere in moto e guidò in silenzio.
Non accese
nemmeno la radio.
La
differenza con il viaggio di qualche ora prima mi provocò un dolore intenso
all’altezza del petto. Era violento al punto da rendermi inerme.
Non avevamo
condiviso niente eppure…
«Buonanotte.»
Eravamo
arrivati sotto il palazzo in cui c’era il mio appartamento, quello in cui
vivevo da sola perché a ventotto anni avvertivo il bisogno di indipendenza,
quello in cui speravo sarei rientrata con lui.
Antonio non
spense nemmeno il motore.
Non ebbi il
coraggio di guardarlo.
Il suo voltafaccia
mi aveva sconvolta.
Addolorata.
Mi aveva
distrutto.
«A…» La voce
mi si spense. Non riuscivo a continuare. Chiusi la bocca, la gola bloccata dal
tormento.
Era finita.
Non sapevo
perché, non avevo il coraggio di chiedere spiegazioni, dubitavo che ne avrei ottenute,
ma ero certa che per Antonio la breve parentesi con me fosse conclusa.
Annuii con
consapevolezza e aprii la portiera. Nel momento in cui fossi uscita
dall’abitacolo, sarebbe cambiato tutto.
Mi
allontanai dalla vettura come in trance. Arrivai al portone e scavai nella
borsa in cerca delle chiavi.
Mi tremavano
le mani.
Non cedetti
all’impulso di voltarmi. Sapevo che era ancora lì, avrebbe aspettato che
entrassi in casa.
Lo odiai.
Profondamente. Con tutta me stessa.
Non la
volevo la sua premura.
Mi aveva
lasciata senza una parola.
Non volevo
nulla da lui.
Il mazzo di
chiavi mi cadde mentre cercavo quella giusta.
Mi
accovacciai e lo raccolsi, poi aprii il portone solo per vederlo andar via. Non
sopportavo l’idea che fosse così vicino.
Entrai
nell’androne buio e mi fermai oltre la soglia, appoggiando le spalle al
battente.
Chiusi gli
occhi e le gambe mi cedettero. Scivolai lentamente a terra.
Cosa gli era
successo?
Un attimo
prima aveva dichiarato di voler fare le cose per bene con me, di non voler
sbagliare, e quello dopo diventava cupo e nervoso solo perché avevamo
incontrato i miei amici?
La
realizzazione, quando arrivò, mi fece conficcare le unghie nei palmi.
Il mio petto
iniziò a sollevarsi con rapidità, i respiri brevi mi annebbiarono la vista. Ma
non fu un problema. Era già oscurata dalla rabbia.
Da una furia
cieca e devastatrice.
Mi alzai in
fretta e raggiunsi il garage per prendere la mia Ypsilon.
Vele di Scampia, visione notturna. |
Ero così
sconvolta da non temere per nulla, nemmeno per la mia incolumità.
Raggiunsi le
Vele e parcheggiai alla luce arancione di un lampione.
Credevo non
ci fosse nessuno in strada a quell’ora, ma a cento metri da me si era formata
una fila di persone. Drogati.
Mi accertai
che la macchina di Antonio fosse parcheggiata nei paraggi e, quando ne ebbi la
conferma, mi addentrai nel complesso.
Salii le
scale, nelle orecchie l’unico rumore del mio battito, accelerato al punto che mi
faceva male il petto.
I cancelli
tra i settori erano aperti. Me l’aspettavo.
Con la
piazza di spaccio a uno sputo di distanza non si dovevano compromettere le vie
di fuga.
Bussai alla
porta di Antonio con il pugno.
Ero stata
avventata a precipitarmi lì, ma ero delusa e non avevo avuto tempo di riflettere.
Avevo
pensato che i pregiudizi di Antonio fossero stati spazzati via dalle mie
rassicurazioni, ero convinta che avesse compreso. Ma non era stato così.
Gli era
bastato confrontarsi con altre persone, con i miei amici, per mettere in
discussione il nostro fragile legame.
Per dubitare
di me.
Quando aprì
la porta, i suoi occhi si sbarrarono.
«Che cazzo
ci fai qui?» ringhiò, la sorpresa che lasciava il posto all’irritazione.
Be’, avevo
scoperto che la rabbia agiva su di me in modo miracoloso. In quel momento non
avevo paura di nulla. Non avevo paura di lui.
Mi afferrò
per un polso e mi tirò dentro casa.
Non fu
tenero, mi fece male.
La sua presa
mi avrebbe di sicuro lasciato dei lividi.
Mi
allontanai da lui come se mi fossi bruciata. Non volevo che mi toccasse.
Raggiunsi la
cucina e mi premurai di accendere la luce sbattendo il palmo sull’interruttore.
«Sai, mentre
venivo qui ho pensato molto. Mi sono chiesta se meritavi questo confronto. Ma non
mi interessa. Lo merito io»
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«È inutile»
affermò. La sua voce assomigliava più al ruggito di un leone che a verso umano.
«Non lo
stabilisci tu» protestai. «E smettila di guardami come se fossi un’amante
scaricata e fuori di testa. Non siamo stati insieme nemmeno il tempo necessario
perché lo diventassi.»
Abbassò gli
occhi, incapace di sostenere la determinazione nei miei. Un muscolo gli vibrava
sulla guancia.
«Non dovevi
venire.»
«Certo»
sbuffai con una risata amara. «Avrei dovuto accettare ancora una volta il tuo
silenzio e far finta di nulla. Ma non te lo permetterò. No, finirà come dico io!»
«Ti avrei chiamata» mi comunicò. Non avevo dubbi che
l’avrebbe fatto. Era uno stronzo, non un vigliacco. Si sarebbe preso il tempo
per meditare e collezionare motivazioni a sostegno della sua decisione.
Non gliel’avrei concesso.
Mi imposi di restare calma, anche se avrei voluto urlare.
Non era quello il modo giusto per chiarirgli il mio punto di vista.
Non era il
mio dolore che doveva registrare, ma la mia fermezza.
Mi voltò le
spalle e afferrò un mazzo di chiavi appoggiato sul tavolo.
«Ti
accompagno a casa.»
Scoppiai a
ridere, anche se non c’era gioia nella mia voce. Incredulità, sì, sorpresa e…
amarezza.
«Smettila
con questo atteggiamento da supereroe. Non sono Gabriele. Ti dirò ciò che devo
e poi tornerò a casa così come sono venuta. Da so-la» scandii.
Il
riferimento al fratello lo fece scattare. Mi si avvicinò minaccioso, ma non mi
toccò.
«Cazzo!»
ringhiò, la frustrazione stampata sul viso.
Bene. Volevo
che perdesse la calma. Forse allora mi avrebbe parlato, sarebbe riuscito a
tirare fuori ciò che lo stava avvelenando. Ciò che l’aveva indotto a spezzarmi.
A farsi del male.
«Gre…» La
voce gli mancò. Lo vidi respirare a fondo. Lo stavo torturando costringendolo a
fronteggiare una situazione nuova per lui.
Era così
solo che dubitavo riuscisse a sostenere una discussione.
Le sue
parole erano la legge nel suo mondo fatto di due persone. Ma non lo erano nel
mio.
«Non posso
darti ciò che vuoi.»
Spalancai
gli occhi e provai ad articolare una frase senza mettermi a gridare, ma non ne
fui capace. «Tu non mi hai mai chiesto cosa voglio!» iniziai. Lo vidi arretrare
di un passo, colpito dalle mie parole.
«Tu non hai
nemmeno provato a capire cosa mi
spingesse verso di te. Hai dato per scontato che volessi qualcosa di diverso,
di esotico» lo accusai. Ripresi fiato, pronta a continuare ma lui iniziò a
scuotere la testa.
Non voleva
ascoltarmi.
«Mi vuoi, ma
non sai chi sono» affermò, come se spiegasse tutto. E invece non chiariva un
bel nulla! Non sapevo chi era perché si era rifiutato di farsi conoscere.
«Non è colpa
mia se…»
«Non hai
pensato a cosa significa stare con me. La famiglia da cui provengo…»
Ancora una
volta non riuscì a terminare la frase a causa di quel maledetto orgoglio che
gli imponeva di non mostrare le sue insicurezze, le sue difficoltà.
Mi tremò il
mento. La pena che provavo per lui mi stava mettendo in ginocchio. Il suo senso
di inadeguatezza si abbatteva su di me a ondate e la mia gola era stretta al
punto che dubitavo di riuscire anche solo a respirare.
Avrei voluto
abbracciarlo, rassicurarlo.
Ma c’era di più
dietro le sue parole.
«Mi ritieni
così superficiale?» gli domandai, la voce sottile, rotta dalle lacrime che mi
rifiutavo di versare. «Hai così poca stima di me?»
Abbassai lo
sguardo, gli voltai le spalle e appoggiai entrambe le mani al piano cottura.
Mi era
insopportabile guardarlo.
Ricacciai
indietro il pianto, sedai la rabbia. Lasciai lo spazio alla desolazione, al
senso di fallimento.
Avevo
provato a combattere la sua mancanza di fiducia, avrei continuato a farlo
finché non avessi spazzato via ogni sospetto, ogni riserva. Ma avevo bisogno
della sua volontà di superare questi ostacoli. Aveva mollato ancor prima di
provarci.
«Vuoi sapere
a cosa ho pensato in queste
settimane? No, mesi. Sono stati mesi, Antonio» gli dissi. Una strana calma si
era impadronita di me.
Mi sentivo
svuotata.
Lo
fronteggiai di nuovo. L’avrei guardato negli occhi, non gli avrei lasciato
scampo.
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Antonio non
sbatteva le palpebre. I suoi occhi erano fissi nei miei, privi di espressione.
Respirava?, mi chiesi. Forse no.
Attendeva.
«Tuo padre è
un camorrista, un pesce piccolo e nemmeno intelligente dal momento che non ha
mai fatto carriera. Credo picchiasse tua madre…»
Le narici di
Antonio si dilatarono, la furia gli stravolse i lineamenti.
La cicatrice
sotto l’occhio sembrava ancora più profonda.
Dentro di
me, avevo la certezza che a procurargliela fosse stato suo padre.
Persi la
battaglia con me stessa e le lacrime mi rotolarono sulle guance.
«Tua madre…»
«Zitta.»
Rabbrividii
per il tono di quell’ordine. Lo stavo spingendo al limite.
«Gabriele
non ha conosciuto sua madre» ripresi, imperterrita. «Se la idealizza al punto
da picchiare un coetaneo, è perché tu
ne conservi il ricordo di una santa.»
Mi asciugai
le gote con fastidio. Gli stavo facendo del male e questo stava distruggendo
me.
Era
necessario.
«La
differenza tra me e te è abissale. Tu non hai studiato, io sono laureata. Tu
sopravvivi mentre io a ventotto anni posso permettermi di vivere da sola in un
appartamento a Posillipo, mantenuto grazie all’aiuto dei miei genitori.»
Gli sbattei
in faccia quelle che dovevano essere le sue considerazioni, i motivi per cui mi
aveva lasciato sotto casa con un “Buonanotte” che suonava come un addio.
Virginia e Giuseppe gli avevano solo rammentato ciò su cui aveva sempre
speculato.
Seppi di
aver fatto centro quando il dolore gli dipinse sul viso una maschera di
tormento. Lo dissimulò subito.
La vita gli
aveva insegnato ad affrontare tutto.
Ringraziai
che avesse una corazza tanto spessa da cui trarre la forza per non arrendersi,
anche se non lo proteggeva dalla sofferenza.
I dispiaceri
avevano scavato in lui un inferno di rabbia e cautela di cui si abbeveravano i
suoi pregiudizi.
«Vedi? Avevo
pensato a tutto» dissi picchiettandomi
la tempia con un dito. «Eppure non erano la tua vita e la tua famiglia a
preoccuparmi. Sapevo che i tuoi silenzi sarebbero stati un problema, che le
nostre differenze culturali avrebbero potuto allontanarci. Però ero determinata
a costruire un ponte» confessai, dando voce alle mie speranze. «Credevo che se
tra noi ci fosse stato rispetto, nessuna discussione sarebbe stata sterile.
Avremmo parlato fino a quando non fossimo giunti a un compromesso, e nel
frattempo ci saremmo arricchiti. Non mi spaventava provarci, anche se sarebbe
stato faticoso. Avrei lottato per noi, ma tu non c’hai creduto abbastanza.»
Mi scostai
dal piano. Lo guardai per bene. Era così dolorosamente bello, anche nella
fissità dell’indifferenza che era risoluto a mostrarmi.
Pensai che
avrei dato qualsiasi cosa pur di vederlo sorridere come qualche ora prima, con
passione e calore.
Non ce ne
sarebbe più stata occasione.
«Bene. Non
ho nient’altro da dire» conclusi, amareggiata, sulla lingua il sapore delle
lacrime e della sconfitta.
«Ora è davvero… finita.»
Feci un
passo avanti per andarmene.
Mi accorsi troppo
tardi che la luce nei suoi occhi era cambiata.
Un brivido
di allarme mi percorse la schiena.
Benvenuti a Scampia. Basta crederci e trovi un mare di bene a Scampia. |
Siamo arrivati alla fine di questo nuovo episodio di Sangue Amaro
e, anche se oggi non avrò conquistato la vostra simpatia, spero vi sia
piaciuto.
Vi avevo già segnalato che ogni puntata avrebbe affrontato un tema
diverso, oggi è stato per me fondamentale sviscerare quello delle differenze
sociali e culturali.
Lo so, ci piace sognare che la ragazza che viene da un imprecisato
paesotto di campagna riesca a conquistare un istruito milionario, di libri
simili ne abbiamo letti centinaia e continueremo a leggerli, ma non è così
semplice stabilire una relazione e l'amore non basta: ci vuole dialogo.
Ricordo che lessi un articolo illuminante di una eccellente
autrice italiana la quale sosteneva che l'eroe doveva essere sempre socialmente
ed economicamente superiore alla sua donna, altrimenti alle lettrici non
sarebbe piaciuto, non avrebbero visto in lui un principe azzurro. Sono
d'accordo, ma Sangue Amaro non è un romanzo rosa che corrisponde a
delle necessità di mercato, è uno spaccato di vita quotidiana e come tale si
porta dietro difficoltà REALI. Non vi ho mai nascosto che è la storia di un
amore puro, incorrotto e incorruttibile, ma se vi aspettate una narrazione
più infiocchettata allora questo progetto non fa per voi.
Non voglio fare sconti ad Antonio e Greta, ciò che è accaduto e
accadrà deve essere coerente con la loro caratterizzazione e il loro background.
Se saranno capaci di trovare dei compromessi sta a voi scoprirlo continuando a
leggere.
Vi ringrazio ancora una volta per la costanza e l'affetto con cui
mi state seguendo. Leggo le vostre opinioni e ogni volta mi sembra un miracolo.
Voi mi scaldate il cuore!
Spero di leggere ancora i vostri COMMENTI e
di ritrovarvi ancora qui la prossima settimana.
Vi abbraccio.
Angela
Ps. Come nelle scorse settimane vi lascio delle note, seguendole troverete degli approfondimenti su ciò di cui parlo.
Troverete anche la Playlist con le canzoni dei 30 Seconds to Mars
che hanno accompagnato la stesura di questo episodio.
NOTE:
* Taralli
'nzogna e pepe (sugna e pepe), taralli
intrecciati preparati con sugna (strutto), mandorle e pepe macinato. Tradizionalmente
si accompagnano a una birra fredda, la Peroni (negli ultimi anni sostituita dalla Corona extra), durante una passeggiata
sul lungomare di via Caracciolo.
Ricetta di Raffaele Pignataro ---> http://tinyurl.com/zyevqds
** Isolotto di Megaride (greco: Megaris), isolotto di tufo propaggine
naturale del monte Echia, che era unito alla terraferma da un sottile istmo di
roccia.
Oggi è collegata alla terra ferma con dei riempimenti a mare, ma
in origine Megaride era distante pochi metri dalla linea di costa. Secondo un
antico mito, già noto in Grecia orientale, ancora prima della fondazione di Neapolis,
il corpo della sirena Partenope fu sepolto a Megaride, essendo stata
trasportata dal mare in quella zona dopo essersi lasciata morire in seguito al
rifiuto di Ulisse.
** Castel dell’Ovo (latino: castrum Ovi), è il castello più antico
della città di Napoli. Si trova tra i quartieri di San Ferdinando e Chiaia, di
fronte a via Partenope. Originariamente era la dependance della villa di
Licinio Lucullo. Successivamente vi si insediarono i monaci basiliani. Fu poi
abitato da Ruggero, re dei Normanni. In seguito a eventi che hanno in parte
distrutto l'originario aspetto normanno e grazie ai successivi lavori di
ricostruzione avvenuti durante il periodo angioino e aragonese, la linea
architettonica del castello mutò drasticamente fino a giungere allo stato in
cui si presenta oggi. Il suo nome deriva da un'antica leggenda secondo la quale
il poeta latino Virgilio nascose nelle segrete dell'edificio un uovo. La sua
rottura avrebbe provocato non solo il crollo del castello, ma anche una serie
di rovinose catastrofi alla città di Napoli.
*** Borgo Marinari, ubicato sull'Isolotto di Megaride, a ridosso
del Castel dell'Ovo, nel quartiere San Ferdinando. Esso è unito alla terraferma
tramite un istmo artificiale collegato col Borgo Santa Lucia. Oltre al
castello, il borgo consta di poche abitazioni: sei palazzi, tutti a due piani,
e al centro una piazzetta. Data la vocazione turistica, le attività commerciali
sono per lo più bar e ristoranti, ma non mancano negozi e officine per la
nautica.
**** Vele di Scampia, complesso di abitazioni a uso
residenziali a forma di vele romane. Tra il 1997 e il 2003 sono state abbattute
tre delle sette Vele. Si presentano in stato di degrado.
***** Piazza di spaccio, palazzi, androni, sottoscala utilizzati per la vendita
di droga, in cui i portoni vengono sostituiti con blindati senza chiave
bloccati all'interno con staffe di ferro.
PLAYLIST PUNTATA #3
BOOKTRAILER
Ogni volta un'emozione in più!
RispondiEliminaBello, bello bello, lei è un mito di ragazza. E adesso non rimane che sperare che lui non sia così vigliacco e riesca a superare le sue paure e ciò che gli suggerisce l'orgoglio per rimettere a posto le cose.
RispondiEliminaMi piace sempre di più
RispondiEliminaAh...odio i silenzi, i fraintendimenti e la mancanza di discussione, ma qui li vedo propedeutica per il continuo della storia e per il carattere dei personaggi.
RispondiEliminaAspetto con ansia il seguito e spero tanto di leggere ancora tanti capitoli, non credo che Angela faccia finire tutto a tarallucci e vino, vero?
Le foto rispecchiano la visualizzazione dei personaggi che mi ero fatta nella mente. Lui è un gran figo!
Non puoi lasciarmi così??? Sarà un'agonia fino a sabato 😭😭😭
RispondiEliminaSappilo che ti sto odiando. Bello bello bello. Mi è scesa la lacrimuccia. Non puoi sospendere nel più bello. Con la tua scrittura mi arrivi dritta al cuore.
RispondiEliminaChe posso dirti....per quel che mi riguarda non sono una persona superficiale e nemmeno una lettrice superficiale! quindi il classico principe azzurro mi inorridisce!!! Greta ed Antonio sono più che mai tangibili in questa puntata e lei è stata grande. No! Tu sei stata grande...sei riuscita a rendere la frustrazione di entrambi reale dalla prima all'ultima parola Complimenti attendo con ansia la prossima puntata. Grazie per questi racconti gratuiti che ci consentono di conoscervi ed apprezzarvi come autrici e di scegliervi nell'infinito panorama degli scrittori. Angela C.
RispondiEliminaBellissimo aspetto con ansia il seguito...in questa puntata Antonio con i suoi silenzi ha mostrato la paura che ha a lasciarsi andare ..alla speranza che Greta voglia davvero lui !!! Greta è stata fantastica ad affrontarlo così a muso duro senza risparmiargli niente...
RispondiEliminaBravissima Angela!!!
Molto bello brava Angela !!! Grazie x questo racconto così reale , e proprio vero in una relazione l'amore nn basta ci vuole dialogo ...Greta mi piace xche è una ragazza forte
RispondiEliminaA sabato Angela <3
Molto bello brava Angela !!! Grazie x questo racconto così reale , e proprio vero in una relazione l'amore nn basta ci vuole dialogo ...Greta mi piace xche è una ragazza forte
RispondiEliminaA sabato Angela <3
no ma tu sei pazza a finire così questo capitolo!!una sola parola:bello,bello, bello!!!
RispondiEliminaSempre più intrigante, Antonio e Greta, personaggi che rispecchiano molto la dura realtà di situazioni difficili, come quella che stai narrando. A sabato prossimo, per me semplicemente bellissimo. Grazie.
RispondiEliminaMa proprio sul più bello... noooo!!
RispondiEliminaSei fantastica,aspetto sempre il fine settimana x leggerti!!!
RispondiEliminaIo sono della generazione del Peroncino. Mi hai riportato alla memoria quando anche sedevo sul parapetto, con il mio ragazzo in piedi fra le mie gambe, con i nostri taralli cavere, e lui distrattanente mi "accarezzava". Grazie.
RispondiEliminaE adessooooo... Sempre più interessante
RispondiEliminacavoli non voglio espormi perchè voglio prima leggerlo tutto ma mi sto davvero appassionando !
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