sabato 23 luglio 2016

SANGUE AMARO: Puntata #8




PUNTATA #8


Le abitudini spazzano via ogni resistenza, creano nuove consuetudini, rendono familiare ciò che si riconosce come estraneo, finché non diventa la tua vita. Eppure, ero certa che a quel sole straniero non mi sarei mai abituata.
A Torino, la stella che baciava la mia Napoli con i suoi raggi dorati, era di un bianco opalescente, una pallida imitazione del giallo rossastro che colorava i miei ricordi.
Rinunciare alla vista del Vesuvio era stato penoso ma sopportabile. Salutare il lungomare mi aveva spezzato il cuore, nondimeno ero sopravvissuta.
Ma la luce? Come si educa l’occhio alla mancanza di calore?
Me lo chiedevo ogni mattina, quando aprivo le finestre del mio appartamento in via Romagnano e respiravo l’aria frizzante dalla mia nuova città. Fino a un mese prima ero stata solita passare la lingua sulle labbra alla ricerca di un’inesistente traccia di salsedine. Arrendersi all’evidenza era stato difficile, ma non ero una bambina e avevo dovuto accettare la realtà: in Piemonte non c’era il mare.
Non si è mai preparati ad abbandonare la propria vita. Non esistono rassicurazioni per chi è costretto a rinunciare alle proprie radici, al mondo così come lo si conosce. Sì, la ragione ci aveva indicato un luogo in cui realizzare i nostri sogni, ma il cuore non avrebbe smesso di battere per la nostra terra.
L’unica consolazione per noi esuli era l’amore.
Nella nostra famiglia ce n’era tanto.
E allora poco importava se la pizza era biscottata e il caffè meno saporito.
Antonio era al sicuro.
Gabriele era sereno.
Mi allontanai dalla finestra del mio ufficio e guardai l’orologio. Sospirai sollevata. Ero in tempo.
Centro di prima accoglienza Uberto Radealli, Torino.
Link:http://www.cgmtorino.it/cpatorino.htm
Ringraziai ancora una volta per gli orari comodi della struttura. Al centro di prima accoglienza per minori non ero l’unica psicoterapeuta e il mio turno copriva solo parte della giornata.
Accettare il lavoro offertomi dal CGM era stato il passo successivo alla tragica domenica affrontata da Antonio.
Non c’era stata alternativa.
I De Lucia prima o poi sarebbero tornati esigendo un nuovo favore e non ci sarebbe stata possibilità di rifiutare che non comportasse una reazione più... definitiva.
Non potevamo rischiare. Non potevo rischiare di perdere Antonio.
Rabbrividii, ancora, e non per il clima.
Le temperature di settembre si mantenevano alte e, contrariamente a quanto pensava Gabriele, a Torino non c’era la neve tutto l’anno.
Il freddo che avvertivo aveva tutt’altra origine, e non ero l’unica a doversi stringere le braccia intorno al corpo quando i ricordi diventavano troppo vividi.
C’erano notti in cui mi svegliavo solo per guardare Antonio. Dell’assalto brutale che aveva subito, il suo viso recava solo una piccola cicatrice sullo zigomo. Nient’altro.
Erano i miei occhi a vedere di più.
Vedevano il sangue, i lividi, il dolore.
E allora lo abbracciavo forte, talvolta svegliandolo. Antonio riusciva sempre a rassicurarmi, ad annullare nel piacere ogni sofferenza.
La sua pena, tuttavia, era superiore alla mia.
Non mi parlava dei suoi incubi.
Lo tormentavano quando era stanco, dopo una giornata particolarmente stressante. Non di rado si svegliava nel cuore della notte, senza fare rumore, senza emettere suono. Solo il suo petto si alzava e abbassava con violenza, come se riprendesse aria dopo il tentativo delle immagini di soffocarlo.
Avevamo bisogno di aiuto, io più degli altri ne ero consapevole, ma il nostro trasferimento era stato repentino e confusionario.
L’Alenia aveva uno stabilimento a Caselle Torinese, Antonio non era rimasto senza lavoro, Gabriele era stato contento di lasciare un luogo in cui era continuamente paragonato al fratello e io avevo una posizione ben retribuita. Ma se la nostra gestione familiare non aveva incontrato particolari difficoltà, sbrigare le pratiche con il tribunale dei minori si era rivelato un vero calvario.
Al bambino era stato assegnato un nuovo assistente sociale di zona e il tempo per noi stessi era stato sottratto dalla necessità di creare un ambiente adatto a ospitarlo.
Erano stati cinquanta giorni intensi, stavamo appena iniziando a respirare.
Prima le esigenze di Gabriele, poi le nostre.
Recuperai il maglioncino di cotone dalla poltrona e me lo drappeggiai intorno alle spalle, poi afferrai la borsa e uscii dall’edificio, diretta alla macchina.
Erano le 13.00, ancora mezz’ora e i ragazzini dell’Istituto comprensivo Martin Luther King si sarebbero riversati fuori dalle classi.
Era prematuro stabilire se Gabriele si trovasse bene, aveva iniziato la scuola solo la settimana prima ma, tranne qualche riferimento al suo accento, i compagni di classe l’avevano accolto bene.
Salutai il signor Giuseppe, la guardia che stazionava al cancello del penitenziario, e lui aprì le sbarre per lasciarmi passare.
Ogni mattina gli portavo il caffè. Per l’acqua non potevo fare nulla, ma la mano era quella di una napoletana come lui, gli avevo assicurato. Il signor Esposito apprezzava!
Impostai il navigatore del cellulare in direzione del corso Francia e mi immisi sulla strada.
Non ero ancora pratica della zona e nei giorni precedenti Antonio si era occupato di prelevare Gabriele rinunciando al pranzo durante la sua pausa.
Si fidava di me, ma capivo il suo bisogno di occuparsi del fratello in prima persona.
Erano stati soli tutta la vita in un ambiente a loro familiare, dover accettare un cambiamento di tale portata li aveva destabilizzati e, come in passato, riuscivano a trovare la forza per affrontare ogni giorno solo l’uno nell’altro.
Bastavano i loro occhi a non farmi sentire esclusa.
Anche se mi ero avviata con anticipo, accelerai un po’ nell’ansia di arrivare presto. Non dubitavo delle mie capacità organizzative, ma non potevo evitare di sentire la pressione della responsabilità di Gabriele.
IC M.L. King sede sita in Corso Francia, Torino.
Link: http://www.icking-to.gov.it/it/
Parcheggiai nei pressi della costruzione in mattoncini rossi.
Qualche mamma già attendeva sotto il sole.
Dio, che strano pensare che esattamente un anno prima ero dall’altra parte del cancello di ferro di un edificio scolastico con Gabriele al mio fianco!
Dodici mesi da quando avevo incontrato le due persone che mi avevano cambiato la vita.
Mi fermai davanti alla scuola e attesi il suono della campanella con le braccia incrociate sul petto.
Quando trillò, raddrizzai le spalle. Fui subito investita dal cicaleccio eccitato dei bambini, una melodia familiare che non ascoltavo da mesi.
Non pensavo mi sarebbe mancata tanto. Al CPA i ragazzi sostavano al massimo novantasei ore prima di essere trasferiti al carcere minorile e, anche se cercavo di stabilire con loro un contatto, le nostre non erano mai sedute facili. L’esperienza di educatrice mi aveva frustrato nelle mie ambizioni ma mi aveva anche regalato l’affetto dei bambini, le loro risate. Ora era tutto diverso.
«Greta!»
L’urlo festoso di Gabriele mi fece scoppiare il cuore di gioia. Mi raggiunse con lo zainetto che gli saltellava sulla schiena a causa della corsa.
Lontano da Scampia era rifiorito, al punto che non mi sorprese ritrovarmi le sue braccia intorno alla vita e il suo visetto premuto sulla pancia.
Nella nuova scuola non doveva dimostrare di essere il più forte per sopravvivere, bastava la furbizia. E lui ne aveva da vendere.
«Ehi!» esclamai, ricambiando la sua stretta e scostandomi per guardarlo negli occhi. «Tutto bene?» mi sincerai.
Gabriele annuì, prima di guardarsi intorno.
Ispezionò la folla con lo sguardo finché non individuò un paio di amichetti.
Li salutò con un cenno arrogante del capo che mi avrebbe provocato una risata se non avessi avuto a cuore la sua sensibilità.
«Possiamo andare» mi concesse.
Gli presi la mano e lui mi camminò affianco fino alla macchina. Okay, forse un po’ ero stupita. Antonio mi aveva parlato del nuovo atteggiamento del nostro scugnizzo, ma non pensavo di vederlo così rilassato.
Quando entrò in macchina, si allacciò la cintura di sicurezza e attese che  mettessi in moto.
«La mamma di Vittorio fa una torta al cioccolato molto buona» disse di punto in bianco.
«Devo chiederle la ricetta» commentai, guardando lo specchietto laterale prima di immettermi nella rotatoria di piazza Rivoli.
In un battito di ciglia arrivammo sotto casa.
Gabriele non aveva continuato il discorso, ma sapevo che non era finito lì.
Dopo aver parcheggiato, presi il suo zaino degli Avengers dal sedile posteriore.
«Anche la tua è buona» esclamò il bambino, mentre aprivo il portone.
La peculiarità di parlare per enigmi non sarebbe mutata, pensai. Era un tratto caratteriale che condivideva con Antonio.
«Sono contenta che ti piaccia.»
«Vittorio ha detto che posso andare a mangiarla a casa sua» mi informò Gabriele, fermo nell’androne del palazzo. «La torta» chiarì.
Mi voltai per guardarlo, certa che volesse sviscerare la questione prima di entrare in casa.
«A te farebbe piacere?» gli chiesi, neutrale. Non era una decisione che spettava a me, ma ero curiosa di conoscere il parere del piccolo. Era importante.
«Però anche lui deve assaggiare la tua!»
Non trattenni una risata. Scossi la testa, divertita, e infilai le scale, tallonata da un confuso Gabriele. Era così dolce da parte sua riferire all’amico che io non ero da meno della sua mamma.
Arrivati al primo piano gli passai le chiavi, aspettando che fosse lui a far scattare la serratura.
Era un bimbo molto indipendente, non potevamo farlo regredire.
«Greta…?»
Non riuscì a farmi la domanda successiva, anche se doveva aver intuito la risposta.
Entrammo nel nostro appartamento e, dopo aver chiuso la porta, mi inginocchiai davanti a lui, mettendogli le mani sulle spalle.
Il suo viso era soffuso di aspettativa.
«Ora mangiamo qualcosa» iniziai, lo stomaco che brontolava al solo pensiero di un pasto equilibrato. «Poi ci esercitiamo con la torta al cioccolato. Ad Antonio piace e noi non possiamo fare brutta figura con Vittorio.»
Mi ritrovai le braccia di Gabriele intorno al collo, stringevano forte. Mi sentii molto soddisfatta. E felice.


***


Non suonai il campanello.
Inserii la chiave nella toppa e la girai verso destra per aprirla.
Il mio polso si fermò al primo scatto, senza insistere.
Una sola mandata, eravamo al sicuro.
Chiusi gli occhi e respirai a fondo. Greta sosteneva che ci voleva un po’ di tempo per abituarsi, che per me sarebbe stato più difficile, ma che ci sarei riuscito.
E a volte ci credevo davvero, ero convinto di poter dimenticare e ricostruire da zero le mie certezze. Ne avevo già due.
Gabriele. Greta.
Ripetere i loro nomi nella mia mente era l’unico modo per iniziare una giornata difficile, la litania che accompagnava le sere in cui temevo di poter perdere tutto da un momento all’altro.
Spinsi la porta ed entrai in casa.
Il cuore ebbe un sussulto quando notai l’assenza di rumori.
Nell’aria aleggiava un profumo di cioccolata misto al deodorante per ambienti alla lavanda.
Appoggiai lo zaino a terra e mi sollevai lentamente, inquieto.
Il televisore era spento.
Dalla cucina non provenivano rumori di pentole spostate da un fornello all’altro.
Percorsi il breve corridoio, le gambe appesantite dall’apprensione.
Da quando ero così insicuro?
Mi affacciai in cucina. I miei occhi saettarono a destra e a sinistra. Era tutto in ordine. La tovaglia era piegata in due e la tavola apparecchiata per una sola persona.
Calma. Respira.
La camera da letto.
Dovevo controllare la mia stanza.
Quando scostai l’uscio, la vista mi si oscurò prima che l’ansia si dissolvesse.
Mi addossai allo stipite, la testa appoggiata allo spigolo di legno.
Cazzo.
La tensione mi abbandonò, lasciandomi tremante.
Deglutii un paio di volte, poi mi voltai di nuovo verso il letto.
Gabriele dormiva accanto a Greta, una lunga ciocca dei capelli di lei ancora arrotolata  intorno al dito.
Una vita prima l’avevo fatto anch’io.
La chioma di mia madre era stata scura come la notte.
Mi strofinai una mano su viso, su e giù, e mi avvicinai al letto.
Non sapevo come unirmi a quel quadro. Vedere Greta e Gabriele così uniti mi procurava una gioia immensa, per questo avevo paura di rovinare tutto.
Se si fossero accorti dei miei timori? Del mio senso di inadeguatezza?
Mi sedetti sul materasso dal lato di Greta.
Lei avvertì il movimento e gemette, ma non si svegliò.
Gabriele si era adattato alla nuova vita con l’entusiasmo tipico dei bambini. Greta non sembrava risentire troppo del trasferimento.
Come potevo dire loro che non mi riconoscevo in nulla? Che ogni giorno mi sembrava un furto alla vita di un altro?
Le statistiche su Scampia erano chiare: molti bambini non uscivano mai dal quartiere. Nella percentuale rientravo anch’io.
Fino ai quindici anni, non ero andato più in là di Secondigliano.
Napoli centro era stato un mistero per me, la metropolitana uno strumento venuto da un futuro lontano. Io, abituato a guidare una moto sin dai nove anni, non avevo mai visto un treno dal vivo.
Allungai una mano e accarezzai i capelli di Greta sparsi sul cuscino.
Le dovevo così tanto.
Senza di lei sarei rimasto a Scampia, contando i minuti che mi separavano da una richiesta impossibile da rifiutare. Forse ci sarebbero voluti mesi, addirittura anni prima che un De Lucia bussasse alla mia porta, ma io avrei vissuto male ogni singolo istante nell’attesa dell’inevitabile.
Greta era riuscita a spingermi verso una decisione necessaria, ma che da solo non sarei riuscito a prendere.
Sapevo che Torino era la scelta giusta. Vedevo con i miei occhi i miglioramenti di Gabriele.
Eppure… le Vele erano l’unica casa che conoscevo.
«Quando sei triste, ti si forma una ruga in mezzo agli occhi.»
Sussultai alle parole di Greta.
Non mi ero accorto che fosse sveglia.
La sua voce era assonnata, roca, irresistibile.
«Aggiunge fascino» dissi stupidamente, perché non sapevo come rispondere alla sua affermazione.
Non ero triste, non mentre lei mi guardava con i suoi bellissimi occhi verdi.
«Non questa» tagliò corto, afferrando la mia mano e tirandomi verso di lei. Appoggiai appena in tempo la destra sul cuscino per evitare di caderle addosso.
«Gabriele è a casa» mi disse, circondandomi il volto con le dita e sfiorandomi le labbra.
Spostai lo sguardo su mio fratello.
Le sue iridi si muovevano rapide sotto le palpebre, la bocca era socchiusa per permettergli di esalare respiri pesanti.
«Lo so» mormorai di getto, restando alla superficie di ciò che potevo sondare con i miei occhi e non spiegandomi il perché lei lo avesse sottolineato.
Fu la mancata reazione alle sue parole ad allertarmi.
Pensava avessi bisogno di sentirmelo dire per tranquillizzarmi, e fino a un mese prima avrebbe avuto ragione. Ma ora…
Il pentimento mi strinse la gola.
Cercai lo sguardo di Greta e la trovai in attesa. Era sempre un passo indietro rispetto a me e a Gabriele, sempre ai margini, come se fosse giusto.
Ero stato io a convincerla che lei veniva dopo le nostre necessità?
«Ieri ho preparato l’insalata di riso. Sarai affamato.»
Si sollevò, costringendomi a spostarmi per abbandonare il letto.
Le afferrai il polso per impedirle di muovere un altro passo.
Greta mi guardò, confusa.
«Antonio, il riso non si serve da solo» mi riprese con un sorriso dolce e inconsapevole.
Era il momento giusto per confessare i miei sentimenti, ma avevo la lingua attaccata al palato.
La lasciai andare.
Quando fu fuori dalla stanza, sospirai e mi appoggiai con un gomito al cuscino. Ero un vigliacco.
Gabriele si girò su un fianco e tastò le lenzuola con una mano. Anche nel sonno riusciva a percepire l’assenza di Greta.
Studiai il suo volto, la sua fronte aggrottata, forse per un brutto sogno, chissà.
Non osai toccarlo, per paura che si svegliasse.
Ero protettivo nei suoi confronti in un modo che uno psicologo avrebbe definito inopportuno. Spesso mi ero chiesto se non lo soffocavo con il mio bisogno di averlo vicino.
In realtà non c’era mai stata un’alternativa. Se non ci fossi stato io al suo fianco, avrebbe avuto la solitudine come unica compagna.
L’idea di affidarlo a uno sconosciuto non era contemplata.
Ma Greta non era un’estranea.
Di lei mi fidavo
Per lei avrei dato la vita.
Poter contare sul suo appoggio, sul suo amore, sulla sua presenza anche nelle piccole faccende quotidiane era il motivo per cui riuscivo a riposare e ad affrontare ogni giorno.
E lei non lo sapeva, non gliel’avevo mai detto.
Mi mancavano le parole appropriate, anche se le respiravo a ogni boccata d’aria.
Mi diressi in bagno e mi feci una doccia veloce, sostituendo i jeans con una tuta.
Greta era in cucina e mi aspettava seduta al tavolo.
Il televisore era acceso, ma il volume basso.
Mi accomodai a capotavola, davanti a una porzione di insalata che avrebbe sfamato una famiglia.
«Hai esagerato» la rimproverai scherzosamente.
Lei inarcò un sopracciglio perfetto sul suo viso perfetto.
Era una bambola.
«Non ti ho mai visto lasciare il piatto a metà» rispose, piccata. Sapeva bene che la portata era fuori misura.
«Di questo passo dovrai rinunciare ai miei addominali» la provocai.
Greta posò la pesca e il coltello sul tavolo. Aspettava che rientrassi da lavoro per mangiare la frutta con me. Era il suo modo di farmi compagnia.
«Hai perso peso.»
Ne ero consapevole, ma non avevo collegato il mio dimagrimento alla quantità di cibo che mi presentava.
Era preoccupata, mi accorsi. Tanto.
Le afferrai una mano e le carezzai il dorso con il pollice. «In estate perdo sempre peso. È normale.»
Greta annuì, nonostante avesse riconosciuto la bugia.
Nella settimana trascorsa in ospedale non ero riuscito a toccare nulla, in quelle successive lo stress del trasferimento e dell’iter burocratico mi aveva tolto l’appetito.
«Gabriele ti ha preparato una torta al cioccolato» mormorò, la voce piccola.
Mi straziava vederla così addolorata.
Dovevo riprendermi. Presto.
Mi ero illuso di averle celato con successo la mia inquietudine e il mio disagio. E nascondendomi avevo fatto del male anche a lei.
Per quanto mi fossi sempre opposto all’idea, sapevo che l’unica soluzione era la terapia familiare.
Stavo per parlargliene quando Gabriele fece il suo ingresso in cucina.
«Avete già mangiato la torta senza di me?» chiese, stropicciandosi gli occhi.
Con la canottiera senza maniche infilata negli slip bianchi e i calzini a metà caviglia, era una visione che avrebbe intenerito ogni genitore.
«Senza di te?» ripeté Greta, le nostre dita erano ancora intrecciate. «Sei pazzo?»
Gabriele sorrise, mostrando gli incisivi ancora sproporzionati rispetto al resto dei denti. Poi corse verso di noi.
«Attento!» urlai, timoroso che cadesse.
Lui arrivò in scivolata accanto a noi, usando come freno una spalla di Greta e una mia.
«Finisci il riso» mi ordinò il delinquente. «E lascia lo spazio per la torta. Devo sapere se è più buona di quella della mamma di Vittorio.»
La mamma di Vittorio?
Greta scoppiò a ridere, cogliendo un riferimento che ancora non conoscevo, ma di cui ero certo sarei stato informato.
Quel momento tanto semplice mi sembrò così bello che rifiutai di battere le palpebre per paura fosse un sogno.
Gabriele, spinto dalla gioia di Greta, ci tirò verso di sé, stringendoci entrambi con le sue braccia ossute.
Chiusi gli occhi per nascondere la commozione.


***


«Dovrei permettere a Gabriele di frequentare casa di Vittorio?»
Incrociai lo sguardo di Greta nello specchio ovale della toeletta. Si stava spalmando la crema sul viso. Adoravo vederla prepararsi per la notte.
Si passò un dito sul lato del naso per eliminare uno sbaffo bianco. Sembrava non avesse ascoltato la mia domanda, ma ormai la conoscevo.
Se avessi saputo giocare a scacchi, lei mi avrebbe stracciato.
«Cosa ti preoccupa?» mi chiese.
Da dove iniziare?
Provai a formulare una risposta che non mi facesse sembrare un fratello ansioso senza speranza di essere ricondotto alla ragione.
«Non mi fido di chi non conosco» tentai.
Greta prese la spazzola e iniziò a districarsi i nodi dei capelli. Probabilmente pensava che non mi fidassi di nessuno a prescindere.
Avevo delle eccezioni.
Osservai le setole rigare e dividere le sue ciocche castane. Lentamente.
Era una tortura assistere a quel rituale.
Quando si portò i capelli su un lato del collo, lasciando esposta una spalla levigata, intrecciai le mani dietro la testa. Fremevano dal desiderio di posarsi sulla sua pelle.
Mi costrinsi a rimanere disteso sul letto, testimone indisturbato di uno spettacolo intimo, dolce, ipnotico.
Quel momento era solo mio.
Greta donava un pezzo di sé a ogni persona che aveva la fortuna di conoscerla.
Gabriele aveva i pomeriggi trascorsi a fare i compiti con lei, i ragazzi al centro godevano dei suoi incoraggiamenti, i colleghi beneficiavano della sua disponibilità nel lavoro di gruppo.
Non potevo averla solo per me, anche se a volte avrei voluto.
«Forse c’è una soluzione» iniziò. La sua voce era esitante. Era sempre così quando discutevamo di mio fratello.
Mi infastidiva il pensiero che non si sentisse libera di esprimersi sull’argomento.
Greta era sempre stata un caterpillar, la sua forza era uno dei motivi per cui avevo ceduto ai miei sentimenti per lei. Diavolo, non dubitavo che le poche volte in cui l’avevo esasperata mi avrebbe lasciato proprio come aveva minacciato di fare.
Quando si trattava di Gabriele, tuttavia, l’incertezza le velava lo sguardo.
«Sentiamo» la incoraggiai.
Lei non si pronunciò subito. Aprì un cassettino alla ricerca di un elastico.
Legava i capelli in una treccia per impedire che si aggrovigliassero durante la notte. La maggior parte delle volte era una premura inutile.
Mi assicuravo personalmente di scioglierli e di spettinarli.
Erano lunghi e lucenti. Privarmi del piacere di saggiarne la morbidezza era una punizione che non meritavo.
Si fermò, appoggiando le mani al tavolino e cercando i miei occhi. Lo faceva sempre quando discutevamo.
Talvolta ero io quello incapace di sostenere ciò che vi leggevo.
«Posso invitare la mamma di Vittorio per la merenda. A quell’ora ci saresti anche tu, così potrai decidere se la signora ti piace» propose, senza sapere quanto quel suggerimento mi avesse sconvolto.
Mi sollevai, gettando le gambe fuori dal letto.
«Era solo un’idea» si affrettò a dire, preoccupata dalla mia reazione.
Percorsi il metro che mi separava da lei con le mascelle serrate, fermandomi solo quando fui alle sue spalle.
«Se non sei d’accordo, Gabriele capirà. Lui comprende sempre» continuò, restituendomi dallo specchio uno sguardo allarmato.
Ero io a non aver capito l’importanza di avere una compagna.
Non fino a quel momento.
Presi la spazzola che lei aveva abbandonato.
Greta provò a voltarsi verso di me, ma con un cenno del capo la bloccai.
Provai a imitare i suoi movimenti, attento a non sfiorare con le dita le ciocche setose.
Schiusi le labbra per risponderle, poi le sigillai di nuovo.
Non ero pronto.
La spazzola mi cadde di mano.
Con un gesto di stizza mi inginocchiai per recuperarla. I miei muscoli erano così tesi da vibrare.
Strinsi i pugni, poi li riaprii. Non servì a calmarmi.
Allora respirai a fondo. Di solito aiutava.
Quando sentivo un peso comprimermi il petto, dovevo solo ricordarmi di immettere aria.
«Antonio, guardami.»
Greta mi posò una mano sul collo. La accontentai.
«Cosa succede? Parlami.»
Parlami.
Aveva individuato il problema. L’avevo fatto anche io.
I miei silenzi non erano dovuti all’ostinazione né alla timidezza, no.
Ogni combinazione di lettere non era casuale, aveva il potere di costruire o distruggere.
Il giuramento di prendermi cura di Gabriele aveva salvato il mio futuro.
Un semplice “no” aveva cambiato il corso delle nostre vite.
Le parole erano importanti.
Mi spaventavano.
Le prossime richiedevano tutto il mio coraggio, eppure non potevo più trattenerle. Non quando Greta mi aveva dimostrato ancora una volta con semplicità che non ero più… solo.
«Io…» L’ansia mi comprimeva le corde vocali, ma tacere un secondo di più era impensabile. «Io ti… io ti amo.»
Il cuore iniziò a battermi nel petto con forza, il sangue rombò impetuoso nelle mie orecchie.
Greta abbassò il volto, gettandomi nel panico.
«Pensavo non l’avresti mai detto.» Fu un sussurro. Risuonò nella mia testa come un’esplosione.
Le incorniciai le guance con mani incerte. Avevo bisogno di guardarla.
Resistere al dolore provocatomi dalle sue lacrime, richiese tutta la mia determinazione.
«Saresti… riusciresti a ripeterlo?» mi chiese con umiltà.
Che stupido ero stato! Avevo sottovalutato quanto fosse importante ascoltare una
dichiarazione d’amore, avere la certezza di essere amati.
Odiai ogni attimo in cui l’avevo privata della gioia che lei mi regalava ogni giorno. Avevo avuto paura di donarle l’ultima parte di me su cui riuscivo ancora a esercitare un controllo. Paura di non poter tornare indietro.
Quella mancanza ora mi sembrava imperdonabile.
Non volevo nasconderle nulla.
Greta mi avrebbe protetto, non dovevo più difendermi.
Le afferrai entrambe le mani e la aiutai ad alzarsi.
Le sue braccia mi circondarono subito la vita, il suo bellissimo viso era sollevato verso di me. Luminoso, felice, ricco di sentimenti.
Le accarezzai i capelli con dolcezza, le baciai la fronte, il naso delicato.
Sulle labbra le soffiai la mia promessa.
«Non smetterò mai di amarti.»



Benvenuti a Scampia. Basta crederci e trovi un mare di bene a Scampia.





Grazie!
Prima di dire altro, lasciate che vi ringrazi. Grazie per la costanza con cui mi avete seguito, grazie per i vostri commenti, per le condivisioni, per i like…
Siete centinaia e credetemi se vi dico che mi dispiace non conoscere i nomi di ognuno di voi.
Siete nel mio cuore, TUTTI.
Nel corso delle settimane avete capito che Sangue Amaro non è solo un racconto per me, non è solo fantasia. Sangue Amaro mi ha aiutata a esprimere ciò che avevo dentro, ad amare e anche odiare di più la mia terra.
Napoli, Secondigliano, Scampia… le ho scomposte, sezionate, analizzate, sono andata oltre a ciò che i miei occhi vedono tutti i giorni e ho scovato bellezze celate parimenti a una miseria che non si può raccontare: si comprende solo vivendola.
Pensavo di aver accumulato abbastanza esperienza da non essere toccata dalle immagini che creavo per voi, e invece non è stato così.
Ho rivissuto i coprifuochi durante le guerre fra clan, quando ero troppo piccola per capire ma già sapevo che dopo le 18.00 non c’era più possibilità di uscire di casa. Ho rivisto la mia e le famiglie dei miei compagni di classe scortarci a scuola anche se distava cinquanta metri dalle nostre abitazioni. Ho ricordato le manifestazioni di protesta, quelle a cui molti non partecipavano per paura di essere riconosciuti.
Potrei farvi altri mille esempi, ma non è necessario.
Vi basti sapere che Sangue Amaro mi ha sussurrato all’orecchio i nomi di persone che non dimenticherò mai.
Antonio ha una lista scritta sulla pelle.
A Scampia, a Casavatore e a Casale i nomi oltre che sulla pelle si incidono nel cuore.
In cima alla mia lista c’è un uomo che è stato sacrificato la notte di Natale in quelle che da noi si chiamano “vendette trasversali”.
Per lui non c’è stata speranza. Voglio credere che per la figlia che lui non ha accompagnato all’altare, per i figli che non hanno fatto in tempo a imparare a pronunciare la parola “papà” e per i nipoti che non avranno mai la possibilità di conoscere il nonno, quella speranza ci sia.
La speranza, nella mia storia, è rappresentata da tre personaggi di valore: Antonio, Greta, Gabriele.
Ognuno di loro è un simbolo.
Antonio è l’uomo che si oppone al sistema, che pone la propria dignità e la propria famiglia al di sopra di tutto, pagando il suo desiderio di legalità con l’esilio.
Greta rappresenta la bellezza della mia terra, che sa essere così calda e solidale, così accogliente e priva di pregiudizi. Una terra che sa anche amare i suoi figli, che li coccola e li protegge tutti, senza distinzione. Lei è l’assistenza, il sostegno, l’amore, un insieme di valori che si respirano nelle famiglie in cui “dove mangiano quattro, mangiano anche cinque” e per cui le associazioni si battono ogni giorno.
Gabriele è il futuro.
Che parola preziosa: FUTURO!
Il presente è circoscritto, il passato è archiviato, ma il futuro è una pagina bianca.
Io voglio scriverla usando come inchiostro i valori che puntata dopo puntata vi ho mostrato.
Voglio riempirla d’amore.
Spero che questo viaggio vi sia piaciuto, che Napoli abbia catturato un pezzo del vostro cuore.
Mi dispiace se invece per qualcuno l’avversione è aumentata, non era mia intenzione.
Il mio proposito era raccontarvi un po’ di me, un po’ della mia città e un po’ di personaggi a me cari obbedendo a un unico principio: NON MENTIRVI MAI.
Questa è la mia realtà, la mia visione.
Sono onorata di averla condivisa con voi.
Grazie, grazie… GRAZIE!
Angela D’Angelo


TEASER GRAFICI





PLAYLIST SANGUE AMARO

  



TRAILER



11 commenti:

  1. Angela che dire finale stupendo. ... una storia d'amore bellissima cosi reale in tutto cio che hai scritto grazie x le 8 settimane che ci hai regalato. .. mi mancheranno Antonio e Greta e anche tu 😊 un bacione

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  2. Ha dimenticavo il mio nome cosi mi riconosci rosig

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  3. Che dire se non stupendo finale ....una storia che mi preso fin dall'inizio una realtà troppo cruda raccontata con una semplicità assoluta ...brava brava aspetto una altra storia. Baci!!

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  4. Ma è proprio finita? E mo? Comm amma fa?
    Grazie perché hai mostrato il vero napoletano, che per la famiglia è capace di immensi sacrifici.

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  5. Favoloso, non ci sono parole per esprimerti, pienamente, le emozioni suscitatomi da ogni puntata. L'amore è l'unico sentimento che riuscirà sempre dove tutti gli altri falliscono. Grazie davvero, carissima Angela.

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  6. Felicità e tristezza, per un finale davvero bello ed emozionante.

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  7. Potente!!! Complimenti!!!! sei riuscita ad imprimere sulla carta e soprattuto nei nostri cuori le mille emozioni che napoli suscita
    i nostri protagonisti sono reali , tangibili tridimensionali
    marchiati a fuoco dalla nostra vulcanica terra e noi da loro!!!
    Peccato che non esista un'altra soluzione almeno per il momento e per questo il Sangue di ogni Napoletano come Antonio e Greta rimarrà "Amaro"
    L'amore però come ci insegnano i protagonisti lenisce e fortifica e rende coraggiosi e la speranza e la voglia di cambiamento è nei nostri giovani!!! Grazie per averci mostrato un angolo del tuo cuore!!!! Angela C.

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  8. mi hai lasciata senza parole, ho provato le loro emozioni, una storia come poche, spero che anche se piccolo ne farai un cartaceo perchè vorrei proprio averlo! stupendo davvero !

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  9. Davvero bellissimo questo finale ricco di speranze per il futuro di tutti e tre i protagonisti...Angela e' riuscita a trascinarci nella sua realtà,nel suo recente e doloroso passato,testimone di una realtà tanto distante dalla mia...grazie ad Angela sono riuscita a comprendere meglio cosa ci sia dietro la facciata delle Vele...grazie infinite Angela per avermi fatto entrare nel tuo mondo

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  10. Bellissima storia. Angela sei una scrittrice fantastica, spero che tu abbia il successo che meriti. Hai descritto personaggi veri e attraverso parole semplici ho percepito ogni emozione provata dai protagonisti. Ho provato anche il senso di impotenza per la realtà del territorio, un amore-odio per la nostra terra non solo per Scampia, Napoli ma per tutta la Campania che per colpa della classe dirigente permettono di stuprarla tutti i giorni. Insegniamo ai nostri figli la legalità e il rispetto sperando un giorno, di non abbandonare la nostra casa per un futuro migliore.

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