PUNTATA #8
Le abitudini spazzano via ogni resistenza, creano nuove consuetudini, rendono familiare ciò che si riconosce come estraneo, finché non diventa la tua vita. Eppure, ero certa che a quel sole straniero non mi sarei mai abituata.
A Torino, la stella
che baciava la mia Napoli con i suoi raggi dorati, era di un bianco
opalescente, una pallida imitazione del giallo rossastro che colorava i miei
ricordi.
Rinunciare alla vista
del Vesuvio era stato penoso ma sopportabile. Salutare il lungomare mi aveva
spezzato il cuore, nondimeno ero sopravvissuta.
Ma la luce? Come si educa
l’occhio alla mancanza di calore?
Me lo chiedevo ogni
mattina, quando aprivo le finestre del mio appartamento in via Romagnano e
respiravo l’aria frizzante dalla mia nuova città. Fino a un mese prima ero
stata solita passare la lingua sulle labbra alla ricerca di un’inesistente
traccia di salsedine. Arrendersi all’evidenza era stato difficile, ma non ero
una bambina e avevo dovuto accettare la realtà: in Piemonte non c’era il mare.
Non si è mai preparati
ad abbandonare la propria vita. Non esistono rassicurazioni per chi è costretto
a rinunciare alle proprie radici, al mondo così come lo si conosce. Sì, la
ragione ci aveva indicato un luogo in cui realizzare i nostri sogni, ma il
cuore non avrebbe smesso di battere per la nostra terra.
L’unica consolazione
per noi esuli era l’amore.
Nella nostra famiglia
ce n’era tanto.
E allora poco
importava se la pizza era biscottata e il caffè meno saporito.
Antonio era al sicuro.
Gabriele era sereno.
Mi allontanai dalla
finestra del mio ufficio e guardai l’orologio. Sospirai sollevata. Ero in
tempo.
Centro di prima accoglienza Uberto Radealli, Torino. Link:http://www.cgmtorino.it/cpatorino.htm |
Accettare il lavoro
offertomi dal CGM era stato il passo successivo alla tragica domenica
affrontata da Antonio.
Non c’era stata
alternativa.
I De Lucia prima o poi
sarebbero tornati esigendo un nuovo favore e non ci sarebbe stata possibilità
di rifiutare che non comportasse una reazione più... definitiva.
Non potevamo
rischiare. Non potevo rischiare di perdere Antonio.
Rabbrividii, ancora, e
non per il clima.
Le temperature di
settembre si mantenevano alte e, contrariamente a quanto pensava Gabriele, a
Torino non c’era la neve tutto l’anno.
Il freddo che
avvertivo aveva tutt’altra origine, e non ero l’unica a doversi stringere le
braccia intorno al corpo quando i ricordi diventavano troppo vividi.
C’erano notti in cui
mi svegliavo solo per guardare Antonio. Dell’assalto brutale che aveva subito,
il suo viso recava solo una piccola cicatrice sullo zigomo. Nient’altro.
Erano i miei occhi a
vedere di più.
Vedevano il sangue, i
lividi, il dolore.
E allora lo
abbracciavo forte, talvolta svegliandolo. Antonio riusciva sempre a
rassicurarmi, ad annullare nel piacere ogni sofferenza.
La sua pena, tuttavia,
era superiore alla mia.
Non mi parlava dei
suoi incubi.
Lo tormentavano quando
era stanco, dopo una giornata particolarmente stressante. Non di rado si
svegliava nel cuore della notte, senza fare rumore, senza emettere suono. Solo
il suo petto si alzava e abbassava con violenza, come se riprendesse aria dopo
il tentativo delle immagini di soffocarlo.
Avevamo bisogno di
aiuto, io più degli altri ne ero consapevole, ma il nostro trasferimento era
stato repentino e confusionario.
L’Alenia aveva uno
stabilimento a Caselle Torinese, Antonio non era rimasto senza lavoro, Gabriele
era stato contento di lasciare un luogo in cui era continuamente paragonato al
fratello e io avevo una posizione ben retribuita. Ma se la nostra gestione
familiare non aveva incontrato particolari difficoltà, sbrigare le pratiche con
il tribunale dei minori si era rivelato un vero calvario.
Al bambino era stato
assegnato un nuovo assistente sociale di zona e il tempo per noi stessi era
stato sottratto dalla necessità di creare un ambiente adatto a ospitarlo.
Erano stati cinquanta
giorni intensi, stavamo appena iniziando a respirare.
Prima le esigenze di
Gabriele, poi le nostre.
Recuperai il
maglioncino di cotone dalla poltrona e me lo drappeggiai intorno alle spalle,
poi afferrai la borsa e uscii dall’edificio, diretta alla macchina.
Erano le 13.00, ancora
mezz’ora e i ragazzini dell’Istituto comprensivo Martin Luther King si
sarebbero riversati fuori dalle classi.
Era prematuro
stabilire se Gabriele si trovasse bene, aveva iniziato la scuola solo la
settimana prima ma, tranne qualche riferimento al suo accento, i compagni di
classe l’avevano accolto bene.
Salutai il signor
Giuseppe, la guardia che stazionava al cancello del penitenziario, e lui aprì
le sbarre per lasciarmi passare.
Ogni mattina gli
portavo il caffè. Per l’acqua non potevo fare nulla, ma la mano era quella di
una napoletana come lui, gli avevo assicurato. Il signor Esposito apprezzava!
Impostai il navigatore
del cellulare in direzione del corso Francia e mi immisi sulla strada.
Non ero ancora pratica
della zona e nei giorni precedenti Antonio si era occupato di prelevare
Gabriele rinunciando al pranzo durante la sua pausa.
Si fidava di me, ma
capivo il suo bisogno di occuparsi del fratello in prima persona.
Erano stati soli tutta
la vita in un ambiente a loro familiare, dover accettare un cambiamento di tale
portata li aveva destabilizzati e, come in passato, riuscivano a trovare la
forza per affrontare ogni giorno solo l’uno nell’altro.
Bastavano i loro occhi
a non farmi sentire esclusa.
Anche se mi ero
avviata con anticipo, accelerai un po’ nell’ansia di arrivare presto. Non
dubitavo delle mie capacità organizzative, ma non potevo evitare di sentire la
pressione della responsabilità di Gabriele.
IC M.L. King sede sita in Corso Francia, Torino. Link: http://www.icking-to.gov.it/it/ |
Qualche mamma già
attendeva sotto il sole.
Dio, che strano
pensare che esattamente un anno prima ero dall’altra parte del cancello di
ferro di un edificio scolastico con Gabriele al mio fianco!
Dodici mesi da quando
avevo incontrato le due persone che mi avevano cambiato la vita.
Mi fermai davanti alla
scuola e attesi il suono della campanella con le braccia incrociate sul petto.
Quando trillò,
raddrizzai le spalle. Fui subito investita dal cicaleccio eccitato dei bambini,
una melodia familiare che non ascoltavo da mesi.
Non pensavo mi sarebbe
mancata tanto. Al CPA i ragazzi sostavano al massimo novantasei ore prima di
essere trasferiti al carcere minorile e, anche se cercavo di stabilire con loro
un contatto, le nostre non erano mai sedute facili. L’esperienza di educatrice
mi aveva frustrato nelle mie ambizioni ma mi aveva anche regalato l’affetto dei
bambini, le loro risate. Ora era tutto diverso.
«Greta!»
L’urlo festoso di
Gabriele mi fece scoppiare il cuore di gioia. Mi raggiunse con lo zainetto che
gli saltellava sulla schiena a causa della corsa.
Lontano da Scampia era
rifiorito, al punto che non mi sorprese ritrovarmi le sue braccia intorno alla
vita e il suo visetto premuto sulla pancia.
Nella nuova scuola non doveva dimostrare di essere il più
forte per sopravvivere, bastava la furbizia. E lui ne aveva da vendere.
«Ehi!» esclamai,
ricambiando la sua stretta e scostandomi per guardarlo negli occhi. «Tutto
bene?» mi sincerai.
Gabriele annuì, prima
di guardarsi intorno.
Ispezionò la folla con
lo sguardo finché non individuò un paio di amichetti.
Li salutò con un cenno
arrogante del capo che mi avrebbe provocato una risata se non avessi avuto a
cuore la sua sensibilità.
«Possiamo andare» mi
concesse.
Gli presi la mano e
lui mi camminò affianco fino alla macchina. Okay, forse un po’ ero stupita.
Antonio mi aveva parlato del nuovo atteggiamento del nostro scugnizzo, ma non
pensavo di vederlo così rilassato.
Quando entrò in
macchina, si allacciò la cintura di sicurezza e attese che mettessi in moto.
«La mamma di Vittorio
fa una torta al cioccolato molto buona» disse di punto in bianco.
«Devo chiederle la
ricetta» commentai, guardando lo specchietto laterale prima di immettermi nella
rotatoria di piazza Rivoli.
In un battito di
ciglia arrivammo sotto casa.
Gabriele non aveva
continuato il discorso, ma sapevo che non era finito lì.
Dopo aver
parcheggiato, presi il suo zaino degli Avengers dal sedile posteriore.
«Anche la tua è buona»
esclamò il bambino, mentre aprivo il portone.
La peculiarità di
parlare per enigmi non sarebbe mutata, pensai. Era un tratto caratteriale che
condivideva con Antonio.
«Sono contenta che ti
piaccia.»
«Vittorio ha detto che
posso andare a mangiarla a casa sua» mi informò Gabriele, fermo nell’androne
del palazzo. «La torta» chiarì.
Mi voltai per
guardarlo, certa che volesse sviscerare la questione prima di entrare in casa.
«A te farebbe
piacere?» gli chiesi, neutrale. Non era una decisione che spettava a me, ma ero
curiosa di conoscere il parere del piccolo. Era importante.
«Però anche lui deve
assaggiare la tua!»
Non trattenni una
risata. Scossi la testa, divertita, e infilai le scale, tallonata da un confuso
Gabriele. Era così dolce da parte sua riferire all’amico che io non ero da meno
della sua mamma.
Era un bimbo molto
indipendente, non potevamo farlo regredire.
«Greta…?»
Non riuscì a farmi la
domanda successiva, anche se doveva aver intuito la risposta.
Entrammo nel nostro
appartamento e, dopo aver chiuso la porta, mi inginocchiai davanti a lui,
mettendogli le mani sulle spalle.
Il suo viso era soffuso
di aspettativa.
«Ora mangiamo
qualcosa» iniziai, lo stomaco che brontolava al solo pensiero di un pasto
equilibrato. «Poi ci esercitiamo con la torta al cioccolato. Ad Antonio piace e
noi non possiamo fare brutta figura con Vittorio.»
Mi ritrovai le braccia
di Gabriele intorno al collo, stringevano forte. Mi sentii molto soddisfatta. E
felice.
***
Non suonai il
campanello.
Inserii la chiave
nella toppa e la girai verso destra per aprirla.
Il mio polso si fermò
al primo scatto, senza insistere.
Una sola mandata, lì
eravamo al sicuro.
Chiusi gli occhi e
respirai a fondo. Greta sosteneva che ci voleva un po’ di tempo per abituarsi,
che per me sarebbe stato più difficile, ma che ci sarei riuscito.
E a volte ci credevo
davvero, ero convinto di poter dimenticare e ricostruire da zero le mie
certezze. Ne avevo già due.
Gabriele. Greta.
Ripetere i loro nomi
nella mia mente era l’unico modo per iniziare una giornata difficile, la
litania che accompagnava le sere in cui temevo di poter perdere tutto da un
momento all’altro.
Spinsi la porta ed
entrai in casa.
Il cuore ebbe un
sussulto quando notai l’assenza di rumori.
Nell’aria aleggiava un
profumo di cioccolata misto al deodorante per ambienti alla lavanda.
Appoggiai lo zaino a
terra e mi sollevai lentamente, inquieto.
Il televisore era
spento.
Dalla cucina non
provenivano rumori di pentole spostate da un fornello all’altro.
Percorsi il breve corridoio,
le gambe appesantite dall’apprensione.
Da quando ero così
insicuro?
Mi affacciai in
cucina. I miei occhi saettarono a destra e a sinistra. Era tutto in ordine. La
tovaglia era piegata in due e la tavola apparecchiata per una sola persona.
Calma. Respira.
La camera da letto.
Dovevo controllare la
mia stanza.
Quando scostai
l’uscio, la vista mi si oscurò prima che l’ansia si dissolvesse.
Mi addossai allo
stipite, la testa appoggiata allo spigolo di legno.
Cazzo.
Deglutii un paio di
volte, poi mi voltai di nuovo verso il letto.
Gabriele dormiva
accanto a Greta, una lunga ciocca dei capelli di lei ancora arrotolata intorno al dito.
Una vita prima l’avevo
fatto anch’io.
La chioma di mia madre
era stata scura come la notte.
Mi strofinai una mano
su viso, su e giù, e mi avvicinai al letto.
Non sapevo come unirmi
a quel quadro. Vedere Greta e Gabriele così uniti mi procurava una gioia
immensa, per questo avevo paura di rovinare tutto.
Se si fossero accorti
dei miei timori? Del mio senso di inadeguatezza?
Mi sedetti sul
materasso dal lato di Greta.
Lei avvertì il
movimento e gemette, ma non si svegliò.
Gabriele si era
adattato alla nuova vita con l’entusiasmo tipico dei bambini. Greta non
sembrava risentire troppo del trasferimento.
Come potevo dire loro
che non mi riconoscevo in nulla? Che ogni giorno mi sembrava un furto alla vita
di un altro?
Le statistiche su
Scampia erano chiare: molti bambini non uscivano mai dal quartiere. Nella
percentuale rientravo anch’io.
Fino ai quindici anni,
non ero andato più in là di Secondigliano.
Napoli centro era
stato un mistero per me, la metropolitana uno strumento venuto da un futuro
lontano. Io, abituato a guidare una moto sin dai nove anni, non avevo mai visto
un treno dal vivo.
Allungai una mano e
accarezzai i capelli di Greta sparsi sul cuscino.
Le dovevo così tanto.
Senza di lei sarei
rimasto a Scampia, contando i minuti che mi separavano da una richiesta
impossibile da rifiutare. Forse ci sarebbero voluti mesi, addirittura anni
prima che un De Lucia bussasse alla mia porta, ma io avrei vissuto male ogni
singolo istante nell’attesa dell’inevitabile.
Greta era riuscita a
spingermi verso una decisione necessaria, ma che da solo non sarei riuscito a
prendere.
Sapevo che Torino era
la scelta giusta. Vedevo con i miei occhi i miglioramenti di Gabriele.
Eppure… le Vele erano
l’unica casa che conoscevo.
Sussultai alle parole
di Greta.
Non mi ero accorto che
fosse sveglia.
La sua voce era
assonnata, roca, irresistibile.
«Aggiunge fascino»
dissi stupidamente, perché non sapevo come rispondere alla sua affermazione.
Non ero triste, non
mentre lei mi guardava con i suoi bellissimi occhi verdi.
«Non questa» tagliò
corto, afferrando la mia mano e tirandomi verso di lei. Appoggiai appena in
tempo la destra sul cuscino per evitare di caderle addosso.
«Gabriele è a casa» mi
disse, circondandomi il volto con le dita e sfiorandomi le labbra.
Spostai lo sguardo su
mio fratello.
Le sue iridi si
muovevano rapide sotto le palpebre, la bocca era socchiusa per permettergli di
esalare respiri pesanti.
«Lo so» mormorai di
getto, restando alla superficie di ciò che potevo sondare con i miei occhi e
non spiegandomi il perché lei lo avesse sottolineato.
Fu la mancata reazione
alle sue parole ad allertarmi.
Pensava avessi bisogno
di sentirmelo dire per tranquillizzarmi, e fino a un mese prima avrebbe avuto
ragione. Ma ora…
Il pentimento mi
strinse la gola.
Cercai lo sguardo di
Greta e la trovai in attesa. Era sempre un passo indietro rispetto a me e a
Gabriele, sempre ai margini, come se fosse giusto.
Ero stato io a
convincerla che lei veniva dopo le nostre necessità?
«Ieri ho preparato
l’insalata di riso. Sarai affamato.»
Si sollevò,
costringendomi a spostarmi per abbandonare il letto.
Le afferrai il polso
per impedirle di muovere un altro passo.
Greta mi guardò,
confusa.
«Antonio, il riso non
si serve da solo» mi riprese con un sorriso dolce e inconsapevole.
Era il momento giusto
per confessare i miei sentimenti, ma avevo la lingua attaccata al palato.
La lasciai andare.
Quando fu fuori dalla
stanza, sospirai e mi appoggiai con un gomito al cuscino. Ero un vigliacco.
Gabriele si girò su un
fianco e tastò le lenzuola con una mano. Anche nel sonno riusciva a percepire
l’assenza di Greta.
Studiai il suo volto,
la sua fronte aggrottata, forse per un brutto sogno, chissà.
Non osai toccarlo, per
paura che si svegliasse.
Ero protettivo nei
suoi confronti in un modo che uno psicologo avrebbe definito inopportuno.
Spesso mi ero chiesto se non lo soffocavo con il mio bisogno di averlo vicino.
In realtà non c’era
mai stata un’alternativa. Se non ci fossi stato io al suo fianco, avrebbe avuto
la solitudine come unica compagna.
L’idea di affidarlo a
uno sconosciuto non era contemplata.
Ma Greta non era
un’estranea.
Di lei mi fidavo
Per lei avrei dato la
vita.
Poter contare sul suo
appoggio, sul suo amore, sulla sua presenza anche nelle piccole faccende
quotidiane era il motivo per cui riuscivo a riposare e ad affrontare ogni
giorno.
E lei non lo sapeva,
non gliel’avevo mai detto.
Mi mancavano le parole
appropriate, anche se le respiravo a ogni boccata d’aria.
Mi diressi in bagno e
mi feci una doccia veloce, sostituendo i jeans con una tuta.
Greta era in cucina e
mi aspettava seduta al tavolo.
Il televisore era
acceso, ma il volume basso.
Mi accomodai a
capotavola, davanti a una porzione di insalata che avrebbe sfamato una
famiglia.
«Hai esagerato» la
rimproverai scherzosamente.
Era una bambola.
«Non ti ho mai visto
lasciare il piatto a metà» rispose, piccata. Sapeva bene che la portata era
fuori misura.
«Di questo passo
dovrai rinunciare ai miei addominali» la provocai.
Greta posò la pesca e
il coltello sul tavolo. Aspettava che rientrassi da lavoro per mangiare la
frutta con me. Era il suo modo di farmi compagnia.
«Hai perso peso.»
Ne ero consapevole, ma
non avevo collegato il mio dimagrimento alla quantità di cibo che mi
presentava.
Era preoccupata, mi
accorsi. Tanto.
Le afferrai una mano e
le carezzai il dorso con il pollice. «In estate perdo sempre peso. È normale.»
Greta annuì,
nonostante avesse riconosciuto la bugia.
Nella settimana
trascorsa in ospedale non ero riuscito a toccare nulla, in quelle successive lo
stress del trasferimento e dell’iter burocratico mi aveva tolto l’appetito.
«Gabriele ti ha
preparato una torta al cioccolato» mormorò, la voce piccola.
Mi straziava vederla
così addolorata.
Dovevo riprendermi.
Presto.
Mi ero illuso di
averle celato con successo la mia inquietudine e il mio disagio. E
nascondendomi avevo fatto del male anche a lei.
Per quanto mi fossi
sempre opposto all’idea, sapevo che l’unica soluzione era la terapia familiare.
Stavo per parlargliene
quando Gabriele fece il suo ingresso in cucina.
«Avete già mangiato la
torta senza di me?» chiese, stropicciandosi gli occhi.
Con la canottiera
senza maniche infilata negli slip bianchi e i calzini a metà caviglia, era una
visione che avrebbe intenerito ogni genitore.
«Senza di te?» ripeté
Greta, le nostre dita erano ancora intrecciate. «Sei pazzo?»
Gabriele sorrise,
mostrando gli incisivi ancora sproporzionati rispetto al resto dei denti. Poi
corse verso di noi.
«Attento!» urlai,
timoroso che cadesse.
Lui arrivò in
scivolata accanto a noi, usando come freno una spalla di Greta e una mia.
«Finisci il riso» mi
ordinò il delinquente. «E lascia lo spazio per la torta. Devo sapere se è più
buona di quella della mamma di Vittorio.»
La mamma di Vittorio?
Greta scoppiò a
ridere, cogliendo un riferimento che ancora non conoscevo, ma di cui ero certo
sarei stato informato.
Quel momento tanto
semplice mi sembrò così bello che rifiutai di battere le palpebre per paura
fosse un sogno.
Gabriele, spinto dalla
gioia di Greta, ci tirò verso di sé, stringendoci entrambi con le sue braccia ossute.
Chiusi gli occhi per
nascondere la commozione.
***
«Dovrei permettere a
Gabriele di frequentare casa di Vittorio?»
Incrociai lo sguardo
di Greta nello specchio ovale della toeletta. Si stava spalmando la crema sul
viso. Adoravo vederla prepararsi per la notte.
Si passò un dito sul lato
del naso per eliminare uno sbaffo bianco. Sembrava non avesse ascoltato la mia
domanda, ma ormai la conoscevo.
Se avessi saputo
giocare a scacchi, lei mi avrebbe stracciato.
«Cosa ti preoccupa?»
mi chiese.
Da dove iniziare?
Provai a formulare una
risposta che non mi facesse sembrare un fratello ansioso senza speranza di
essere ricondotto alla ragione.
«Non mi fido di chi
non conosco» tentai.
Greta prese la
spazzola e iniziò a districarsi i nodi dei capelli. Probabilmente pensava che
non mi fidassi di nessuno a prescindere.
Avevo delle eccezioni.
Osservai le setole
rigare e dividere le sue ciocche castane. Lentamente.
Era una tortura
assistere a quel rituale.
Quando si portò i
capelli su un lato del collo, lasciando esposta una spalla levigata, intrecciai
le mani dietro la testa. Fremevano dal desiderio di posarsi sulla sua pelle.
Mi costrinsi a
rimanere disteso sul letto, testimone indisturbato di uno spettacolo intimo, dolce, ipnotico.
Quel momento era solo
mio.
Greta donava un pezzo
di sé a ogni persona che aveva la fortuna di conoscerla.
Gabriele aveva i
pomeriggi trascorsi a fare i compiti con lei, i ragazzi al centro godevano dei
suoi incoraggiamenti, i colleghi beneficiavano della sua disponibilità nel
lavoro di gruppo.
Non potevo averla solo
per me, anche se a volte avrei voluto.
«Forse c’è una
soluzione» iniziò. La sua voce era esitante. Era sempre così quando discutevamo
di mio fratello.
Mi infastidiva il
pensiero che non si sentisse libera di esprimersi sull’argomento.
Greta era sempre stata
un caterpillar, la sua forza era uno dei motivi per cui avevo ceduto ai miei sentimenti per lei. Diavolo,
non dubitavo che le poche volte in cui l’avevo esasperata mi avrebbe lasciato
proprio come aveva minacciato di fare.
Quando si trattava di
Gabriele, tuttavia, l’incertezza le velava lo sguardo.
«Sentiamo» la
incoraggiai.
Lei non si pronunciò subito.
Aprì un cassettino alla ricerca di un elastico.
Legava i capelli in
una treccia per impedire che si aggrovigliassero durante la notte. La maggior
parte delle volte era una premura inutile.
Mi assicuravo
personalmente di scioglierli e di spettinarli.
Erano lunghi e lucenti.
Privarmi del piacere di saggiarne la morbidezza era una punizione che non
meritavo.
Si fermò, appoggiando
le mani al tavolino e cercando i miei occhi. Lo faceva sempre quando
discutevamo.
Talvolta ero io quello
incapace di sostenere ciò che vi leggevo.
«Posso invitare la
mamma di Vittorio per la merenda. A quell’ora ci saresti anche tu, così potrai
decidere se la signora ti piace» propose, senza sapere quanto quel suggerimento
mi avesse sconvolto.
Mi sollevai, gettando
le gambe fuori dal letto.
«Era solo un’idea» si
affrettò a dire, preoccupata dalla mia reazione.
Percorsi il metro che mi
separava da lei con le mascelle serrate, fermandomi solo quando fui alle sue
spalle.
«Se non sei d’accordo,
Gabriele capirà. Lui comprende sempre» continuò, restituendomi dallo specchio
uno sguardo allarmato.
Ero io a non aver
capito l’importanza di avere una compagna.
Non fino a quel
momento.
Presi la spazzola che
lei aveva abbandonato.
Greta provò a voltarsi
verso di me, ma con un cenno del capo la bloccai.
Provai a imitare i
suoi movimenti, attento a non sfiorare con le dita le ciocche setose.
Schiusi le labbra per
risponderle, poi le sigillai di nuovo.
Non ero pronto.
La spazzola mi cadde
di mano.
Strinsi i pugni, poi li
riaprii. Non servì a calmarmi.
Allora respirai a
fondo. Di solito aiutava.
Quando sentivo un peso
comprimermi il petto, dovevo solo ricordarmi di immettere aria.
«Antonio, guardami.»
Greta mi posò una mano
sul collo. La accontentai.
«Cosa succede? Parlami.»
Parlami.
Aveva individuato il
problema. L’avevo fatto anche io.
I miei silenzi non
erano dovuti all’ostinazione né alla timidezza, no.
Ogni combinazione di
lettere non era casuale, aveva il potere di costruire o distruggere.
Il giuramento di
prendermi cura di Gabriele aveva salvato il mio futuro.
Un semplice “no” aveva
cambiato il corso delle nostre vite.
Le parole erano
importanti.
Mi spaventavano.
Le prossime richiedevano
tutto il mio coraggio, eppure non potevo più trattenerle. Non quando Greta mi
aveva dimostrato ancora una volta con semplicità che non ero più… solo.
«Io…» L’ansia mi
comprimeva le corde vocali, ma tacere un secondo di più era impensabile. «Io ti… io ti amo.»
Il cuore iniziò a
battermi nel petto con forza, il sangue rombò impetuoso nelle mie orecchie.
Greta abbassò il volto, gettandomi nel
panico.
«Pensavo non l’avresti
mai detto.» Fu un sussurro. Risuonò nella mia testa come un’esplosione.
Le incorniciai le
guance con mani incerte. Avevo bisogno di guardarla.
Resistere al dolore
provocatomi dalle sue lacrime, richiese tutta la mia determinazione.
«Saresti… riusciresti
a ripeterlo?» mi chiese con umiltà.
Che
stupido ero stato! Avevo
sottovalutato quanto fosse importante ascoltare una
dichiarazione d’amore,
avere la certezza di essere amati.
Odiai ogni attimo in
cui l’avevo privata della gioia che lei mi regalava ogni giorno. Avevo avuto
paura di donarle l’ultima parte di me su cui riuscivo ancora a esercitare un
controllo. Paura di non poter tornare indietro.
Quella mancanza ora mi
sembrava imperdonabile.
Non volevo nasconderle
nulla.
Le afferrai entrambe
le mani e la aiutai ad alzarsi.
Le sue braccia mi
circondarono subito la vita, il suo bellissimo viso era sollevato verso di me.
Luminoso, felice, ricco di sentimenti.
Le accarezzai i
capelli con dolcezza, le baciai la fronte, il naso delicato.
Sulle labbra le
soffiai la mia promessa.
«Non smetterò mai di
amarti.»
Grazie!
Prima di
dire altro, lasciate che vi ringrazi. Grazie per la costanza con cui mi avete
seguito, grazie per i vostri commenti, per le condivisioni, per i like…
Siete centinaia
e credetemi se vi dico che mi dispiace non conoscere i nomi di ognuno di voi.
Siete nel
mio cuore, TUTTI.
Nel corso
delle settimane avete capito che Sangue Amaro non è solo un racconto per me,
non è solo fantasia. Sangue Amaro mi ha aiutata a esprimere ciò che avevo
dentro, ad amare e anche odiare di più la mia terra.
Napoli,
Secondigliano, Scampia… le ho scomposte, sezionate, analizzate, sono andata
oltre a ciò che i miei occhi vedono tutti i giorni e ho scovato bellezze celate
parimenti a una miseria che non si può raccontare: si comprende solo
vivendola.
Pensavo di
aver accumulato abbastanza esperienza da non essere toccata dalle immagini che
creavo per voi, e invece non è stato così.
Ho rivissuto
i coprifuochi durante le guerre fra clan, quando ero troppo piccola per capire
ma già sapevo che dopo le 18.00 non c’era più possibilità di uscire di casa. Ho
rivisto la mia e le famiglie dei miei compagni di classe scortarci a scuola
anche se distava cinquanta metri dalle nostre abitazioni. Ho ricordato le manifestazioni
di protesta, quelle a cui molti non partecipavano per paura di essere
riconosciuti.
Potrei farvi
altri mille esempi, ma non è necessario.
Vi basti
sapere che Sangue Amaro mi ha sussurrato all’orecchio i nomi di persone che non
dimenticherò mai.
Antonio ha
una lista scritta sulla pelle.
A Scampia, a
Casavatore e a Casale i nomi oltre che sulla pelle si incidono nel cuore.
In cima alla
mia lista c’è un uomo che è stato sacrificato la notte di Natale in quelle che
da noi si chiamano “vendette trasversali”.
Per lui non
c’è stata speranza. Voglio credere che per la figlia che lui non ha
accompagnato all’altare, per i figli che non hanno fatto in tempo a imparare a
pronunciare la parola “papà” e per i nipoti che non avranno mai la possibilità
di conoscere il nonno, quella speranza ci sia.
La speranza,
nella mia storia, è rappresentata da tre personaggi di valore: Antonio, Greta,
Gabriele.
Ognuno di
loro è un simbolo.
Antonio è l’uomo
che si oppone al sistema, che pone la propria dignità e la propria famiglia al
di sopra di tutto, pagando il suo desiderio di legalità con l’esilio.
Greta
rappresenta la bellezza della mia terra, che sa essere così calda e solidale,
così accogliente e priva di pregiudizi. Una terra che sa anche amare i suoi
figli, che li coccola e li protegge tutti, senza distinzione. Lei è l’assistenza,
il sostegno, l’amore, un insieme di valori che si respirano nelle famiglie in
cui “dove mangiano quattro, mangiano anche cinque” e per cui le associazioni si
battono ogni giorno.
Gabriele è
il futuro.
Che parola
preziosa: FUTURO!
Il presente
è circoscritto, il passato è archiviato, ma il futuro è una pagina bianca.
Io voglio
scriverla usando come inchiostro i valori che puntata dopo puntata vi ho mostrato.
Voglio
riempirla d’amore.
Spero che
questo viaggio vi sia piaciuto, che Napoli abbia catturato un pezzo del vostro
cuore.
Mi dispiace
se invece per qualcuno l’avversione è aumentata, non era mia intenzione.
Il mio
proposito era raccontarvi un po’ di me, un po’ della mia città e un po’ di
personaggi a me cari obbedendo a un unico principio: NON MENTIRVI MAI.
Questa è la
mia realtà, la mia visione.
Sono onorata
di averla condivisa con voi.
Grazie,
grazie… GRAZIE!
Angela D’Angelo
TEASER GRAFICI
PLAYLIST SANGUE AMARO
TRAILER
Angela che dire finale stupendo. ... una storia d'amore bellissima cosi reale in tutto cio che hai scritto grazie x le 8 settimane che ci hai regalato. .. mi mancheranno Antonio e Greta e anche tu 😊 un bacione
RispondiEliminaHa dimenticavo il mio nome cosi mi riconosci rosig
RispondiEliminaBravissima Angela!
RispondiEliminaChe dire se non stupendo finale ....una storia che mi preso fin dall'inizio una realtà troppo cruda raccontata con una semplicità assoluta ...brava brava aspetto una altra storia. Baci!!
RispondiEliminaMa è proprio finita? E mo? Comm amma fa?
RispondiEliminaGrazie perché hai mostrato il vero napoletano, che per la famiglia è capace di immensi sacrifici.
Favoloso, non ci sono parole per esprimerti, pienamente, le emozioni suscitatomi da ogni puntata. L'amore è l'unico sentimento che riuscirà sempre dove tutti gli altri falliscono. Grazie davvero, carissima Angela.
RispondiEliminaFelicità e tristezza, per un finale davvero bello ed emozionante.
RispondiEliminaPotente!!! Complimenti!!!! sei riuscita ad imprimere sulla carta e soprattuto nei nostri cuori le mille emozioni che napoli suscita
RispondiEliminai nostri protagonisti sono reali , tangibili tridimensionali
marchiati a fuoco dalla nostra vulcanica terra e noi da loro!!!
Peccato che non esista un'altra soluzione almeno per il momento e per questo il Sangue di ogni Napoletano come Antonio e Greta rimarrà "Amaro"
L'amore però come ci insegnano i protagonisti lenisce e fortifica e rende coraggiosi e la speranza e la voglia di cambiamento è nei nostri giovani!!! Grazie per averci mostrato un angolo del tuo cuore!!!! Angela C.
mi hai lasciata senza parole, ho provato le loro emozioni, una storia come poche, spero che anche se piccolo ne farai un cartaceo perchè vorrei proprio averlo! stupendo davvero !
RispondiEliminaDavvero bellissimo questo finale ricco di speranze per il futuro di tutti e tre i protagonisti...Angela e' riuscita a trascinarci nella sua realtà,nel suo recente e doloroso passato,testimone di una realtà tanto distante dalla mia...grazie ad Angela sono riuscita a comprendere meglio cosa ci sia dietro la facciata delle Vele...grazie infinite Angela per avermi fatto entrare nel tuo mondo
RispondiEliminaBellissima storia. Angela sei una scrittrice fantastica, spero che tu abbia il successo che meriti. Hai descritto personaggi veri e attraverso parole semplici ho percepito ogni emozione provata dai protagonisti. Ho provato anche il senso di impotenza per la realtà del territorio, un amore-odio per la nostra terra non solo per Scampia, Napoli ma per tutta la Campania che per colpa della classe dirigente permettono di stuprarla tutti i giorni. Insegniamo ai nostri figli la legalità e il rispetto sperando un giorno, di non abbandonare la nostra casa per un futuro migliore.
RispondiElimina